137 research outputs found

    “Red Rosa”: Rosa Luxemburg’s Utopia of Revolution

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    Rosa Luxemburg è stata un outsider sotto molti punti di vista: convinta fautrice dell’internazionalismo nel panorama politico polacco, in cui prevaleva la “questione nazionale” dell’indipendenza e dell’unificazione dei territori polacchi separati, ha polemizzato direttamente col Lenin sul problema della democrazia all’interno del partito e dello Stato comunista; la sua visione politica era i9n netto contrasto con quella del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) sulla questione dei crediti di guerra; è stata, nella teoria e nella prassi, una sostenitrice dei diritti delle donne. Ma è rimasta un’ebrea senza radici, senza tradizione e senza patria. La morte di Rosa Luxemburg ha segnato la fine di ogni possibilità di una rivoluzione bolscevica in Germania, ma anche la fine di ogni alternativa alla dittatura del partito all’interno del movimento comunista internazionale. Al fallimento politico è seguita la condanna all’oblio. Esiste quasi una conventio ad excludendum nei confronti di Rosa Luxemburg: i polacchi la rifiutano a causa del suo internbazionalismo, gli ebrei a causa della sua freddezza nei confronti della “questione ebraica”, i comunisti perché la considerano “estremista e deviazionista”, i socialdemocratici perché “rivoluzionaria”, i liberali perché la considerano “una terrorista sovversiva e sanguinaria”. Rosa “la rossa”, ebrea senza patria, condizionata dalla sua furia per il suo internazionalismo, è stata vittima della sua stessa euforia, ha tentato di realizzare una rivoluzione politica e sociale, di fondare una repubblica dei consigli dei soldati, degli operai e dei contadini, sbagliando la valutazione delle forze in campo. Ma la sua scelta è stata consapevole e razionale. Una scelta politica e ideale che si pone sulla scia dell’ illuminismo tedesco e della Haskalah. Rosa Luxembur rappresenta una variante radicale degli ebrei assimilate tedeschi, polacchi e russi che hanno tentato di razionalizzare, di far crescere e di “rivoluzionare” la società civile per liberare l’umanità oppressa.Rosa Luxemburg was an outsider in many ways: she vehemently supported internationalism within the Polish political landscape, in which the “national question” of the independence and unification of Polish separated territories prevailed; she argued directly with Lenin about the democracy in the party and in the communist state; her views were in stark contrast to the German Social Democratic party (SPD) on the question of war credits; she was, in theory as well as in practice, a representative of women’s liberation. She remained a Jewess without roots, without tradition and without country. The death of Rosa Luxemburg marked the end of every possibility of Bolshevik revolution in Germany, but also the end of every alternative to the dictatorship of the party within the international communist movement. The political defeat was followed by the condemnation to oblivion. There is almost a conventio ad excludendum against Red Rosa: Poles reject her for her anti-nationalism, Jews because of her indifference to the “Jewish question”, the Communists because they considered her “extremist and deviationist”, the Social Democrats because she was “revolutionary”, the liberals because she was considered a “subversive and bloody terrorist”. Red Rosa, Jewess without homeland, conditioned by the fury of her internationalism, fell victim to her own utopia, she tried to realize a social and political revolution, to build a republic of councils of soldiers, workers, and peasants, missing the valuation of the fighting forces. But her choice was rational and conscious. An ideal and political choice that inherits the tradition of the deutsche Aufklärung and the Haskalah. Rosa Luxemburg represents a radical variant of German, Polish, Russian assimilated Jews who tried to rationalize, to improve, to “revolutionize” civil society to free oppressed humanity

    Wolf Biermann. Die Paradoxie eines politischen Dichters in Exil

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    Dal colloquio con Wolf Biermann del 1985 è facile constatare come il concetto di “rivoluzione” sia cambiato nel corso degli anni, dal momento che il cantautore è sempre stato convinto che la sua vita e la sua opera avrebbero dovuto avere un significato politico. Egli ha ereditato la concezione dell’arte degli anni Trenta, secondo cui il compito di un poeta era quello di cambiare l situazione politica ed economica della società. Biermann usa una terminologia che era in voga negli anni Ottanta. Parte delle sue affermazioni riguardano la situazione politico-culturale del suo tempo e vanno contestualizzate. Sebbene all’epoca di questo colloquio vivesse in esilio da più di nove anni, egli usa la terminologia, e in parte i modi di dire della DDR: termini come “abhauen” (squagliarsela, tagliare la corda), “Tauwetter” (disgelo), “drüber” (dall’altra parte del muro) emergono continuamente nel suo discorso. Se si volesse sintetizzare il motivo dominante delle sue canzoni e delle sue poesie nel periodo in cui viveva nella DDR in una frase, si potrebbe forse utilizzare il titolo di una delle sue raccolte più famose: Non aspettare tempi migliori. Qui Biermann, come spesso accade nella sua opera, rovescia in senso ironico uno slogan del partito comunista ed esprime la convinzione che il comunismo reale “non è in grado di riformare se stesso”. In questa intervista, così come nelle sue poesie, non troviamo alcuna rassegnazione, ma il desiderio di continuare a combattere, nonostante tutto. Biermann, alla metà degli anni Ottanta, si rende perfettamente conto che la situazione politica ed economica non sarebbe migliorata affatto. Ha capito che le giovani generazioni sono diventate anti-ideologiche, cioè che non vogliono più usare gli stumenti del marxismo e della politica. Hanno abbandonato questo modo di pensare, ma Biermann rimane interamente legato a questo modello di pensiero, senza il quale la sua poetica sarebbe inconcepibile. .By speaking with Wolf Biermann, it is easy to see, how the concept of revolution has changed over time, since the songwriter has always been convinced that his life and work should have political significance and effect. He inherited the concept of art of the 1930s, according to which the task of a poet was to change the political and economic situation of the society. Biermann uses a terminology that was normal in the 1980s. Part of his comments concern the political and literary situation of his time and should be contextualized. Although at the time of this interview he has been living in exile for more than nine years, he still uses the political terminology, and partly the jargon of the GDR: words like “abhauen” (to slip off), “Tauwetter” (thaw), “drüber” (beyond the wall) are constantly emerging in his discourse. If one wanted to synthesize the leitmotiv of his songs and poems in the GDR era with one sentence, one could easily use the title of his most famous record: Do not wait for better times. Here, Biermann, as usual in his work, reverses ironically the slogan of the communist party and expresses the conviction that the real existing communism is "not capable to reform itself". In this interview as well as in his poems we cannot find any resignation, but the desire to continue fighting, in spite of all. Biermann is fully aware that the political and economic situation will not be better in the mid-1980s. He fully understands that the young generations have become anti-ideological, i.e. that they no longer want to use the instruments of Marxism and politics. They have quitted this model of thinking, but Biermann remains entirely in this model of thought, without which his poetry would be inconceivable

    Die “Eingleisigkeit” der Dialektik. Ein Rückblick auf die Auffassung des Verhältnisses Kunst-Politik bei Brecht und Lukács

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    Durante un convegno a Budapest del gruppo di ricerca dell’Università di Vienna “Lukács in the context of European culture” ho trovato nell’archivio Lukács una lettera inedita del filosofo ungherese a Hans Mayer del giugno 1961 che viene qui riprodotta. Lukács intende chiarire la sua relazione intellettuale con Brecht e vuole specificare che il senso del cosiddetto “dibattito sull’espressionismo”, avvenuto tra il 1934 e il 1938, era essenzialmente di natura politica. Le posizioni teorico-letterarie corrispondevano alle posizioni politiche delle varie correnti interne al partito comunista dell’Unione Sovietica. Hans Mayer riteneva che le posizioni teorico-letterarie e politiche di Lukács fossero in contrapposizione con quelle di Brecht. Lukács usa la strana definizione “dialettica a binario unico” intendendo con questo un’interpretazione univoca di Marx. Le posizioni teoriche e politiche di Lukács e Brecht in realtà si opponevano a questa “dialettica a senso unico”: erano due “parallele divergenti” cioè due vie per sottrarsi teoricamente e politicamente allo stalinismo. Ambedue rivendicavano una “dialettica a molti sensi”, cioè la possibilità di interpretare la teoria di Marx in modo flessibile e diverso dal dogmatismo di Stalin e del partito comunista sovietico. Tra le righe di questa lettera si può leggere la volontà di Lukács di difendere la sua autonomia intellettuale e politica dalle direttive del partito comunista. Nel momento in cui egli era “impegnato in altre faccende”, ossia nella stesura della sua Estetica, rivendicava un’autonomia filosofica e non voleva più negoziare con i funzionari di partito. Voleva essere annoverato tra i maggiori rappresentanti del “pluralismo ideologico”.During a meeting of the Research group of the University of Vienna “Lukács in the context of European culture” in Budapest I found in the Lukács archive a letter to Hans Mayer of June 19th, 1961, which we reproduce here. Lukács aims to clarify his intellectual relationship with Brecht and to specify that the sense of the debate on literature of 1938 was essentially a political one. The literary theoretical positions of the writers corresponded to the political positions of the fractions of Soviet Union Communist Party. Hans Mayer meant that Lukács’ literary and cultural political positions were the opposite of Brecht’s position. Lukács uses the strange term “single-track of dialectic” meaning a one-dimensional interpretation of Karl Marx. Stalinisms corresponds to that “single-track”. Lukács’ and Brecht’s literary and political positions were the opposite of this “single-track of dialectic” : two “divergent parallel”, i.e. two different but parallel ways to escape theoretically and politically from the Stalinism. Both claim a “multiple-track of dialectic”, i.e. the possibility to interpret Marx’ theory in a different a more flexible way than the dogmatism used by Stalin and by the Soviet Union Communist Party. What can be read out behind the lines of this letter is just Lukács’ aim to defend his intellectual and political autonomy from the directives of the Communist Party. In the moment in which he was busy “with other things” i.e. writing his Aesthetic, he demanded a philosophical independence and he did not want to negotiate with the Communist Party’s functionaries. He would like to be counted among the most important representatives of the “ideological pluralism”. Key words : Lukács letter to Hans Mayer, Brecht, Art and Politics, single-track of dialectics, Dogmatismus/Pluralismus interpreting Mar

    PoliticitĂ  e sperimentazione nei drammi didattici. Prolegomena a uno studio su Brecht

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    Nei drammi didattici di Brecht troviamo la combinazione di politicità e sperimentazione che va decifrata alla luce della dialettica del paradosso. I drammi didattici hanno una forte connotazione politica. Ma il marxismo di Brecht non coincide con quello “ortodosso” e soprattutto non coincide con lo stalinismo. Nei drammi didattici troviamo la tensione e la contraddizione tipica di chi ha una concezione eterodossa del marxismo, derivata da Karl Korsch e dai movimenti rivoluzionari di sinistra, e che tuttavia vuole sostenere l’Unione Sovietica in quanto vede in essa l’unica possibilità di sconfiggere militarmente il nazismo. I drammi didattici sono uno spazio di sperimentazione di nuove tecniche sceniche e recitative, ma sono nel contempo la rappresentazione paradossale e provocatoria delle contraddizioni interne al marxismo e al comunismo reale

    Übergang, Übergangszeit, Übertragung. Eine Hommage an Bernhard Waldenfels

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    The “own” (das Eigene) and the “alien” (das Fremde) have always been conceived as completely separate entities. And the “extraneous” has been painted as absolute “other”. The deconstruction of these categories is today not only a “political”, but also a historical necessity. The presence of the extraneous has put in crisis the presumed homogeneity of the “own” and deconstructed the monocultural society. The transit of the stranger is the presupposition for bringing in the own foreign languages, ideas and even foreign commodities, and this opens the space for an intercultural communication. However, a topography of the “alien” aims at building a typology of the stranger and the forms of the reactions to the meeting with him. Waldenfels means that “alien” has to be perceived as an “Elsewhere”, an exceptional one, who is beyond the existing order. Crossing, transition period, transmission are the forms for the meeting, perceiving and describing of it. When the cultural dislocation happens inside of us in the figure of the heterotopy and in the in-between, we find a special trans-position which brings us to a new form of communication and trans-cultural project

    GERMAN DIFFERENCE. OSTALGIE AS A FORM OF CULTURAL IDENTITY IN UNIFIED GERMANY

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    and filmic media. Then, 10 years after the unification, spread the so-called Ostalgie, or nostalgia for the GDR without any political connotation, but with a retrospective appreciation for the few and modest advantages of socialism (especially solidarity as opposed to competition). But the real meaning of this Ostalgie was the affirmation of an original identity that recovered a different image space consisting of the old East-German imaginary mixed with the hopes and disappointments of the western affluent society. In fact, the best Ostalgie-movies were written and shot by directors born and living in West-Germany

    Übergangsräume. Gilbert Clavel und die Verortung der Visualität

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    Con il temine di “avanguardia marginale” intendiamo definire quella costellazione di autori, finora considerati “minori”, che hanno caratterizzato i primo decenni del Novecento e che, con i loro spostamenti e con le loro relazioni internazionali, hanno avuto la funzione di far circolare temi, idee e stili tra ambiti linguistici e artistici diversi. In particolare è interessante analizzare la colonia di artisti che prima della Grande Guerra aveva trovato un punto di riferimento in Capri e nella Costiera amalifitana. Tra questi Gilbert Clavel, il cui nome non compare in alcuna storia della letteratura tedesca, ha avuto un ruolo importante quale “futurista caprese” per i suoi rapporti con Depero e Tavolato, per i suoi racconti “onirici” e soprattutto per la ristrutturazione di una torre normanna a Positano che ha voluto considerare la sua “opera d’arte totale”. L’opera di Clavel è un esempio paradigmatico degli artisti di questo periodo di transizione che cercano un “altrove” come un luogo ideale per la produzione e ci aiuta – secondo la lezione di Walter Benjamin – a capire l’epoca attraverso i percorsi degli autori “minori” o “marglinali”. This essay will be polarized mainly on those authors and ways hidden in the background, those half-forgotten artists who tried to conjugate the innovative ideas coming from modernity and the avant-garde by paying attention to the tradition’s past (recent and remote). Therefore they are called the “marginal avant-garde”, a definition that emphasizes the experimental character of their work, but also the eccentricity of their artistic ways. In particular we analyze the international artistic colony living on Capri and Amalfi Gulf at the beginning of 20th century. Gilbert Clavel, whose name don’t appear in any history of German literature, has had a very important function in the “Capri’s Futurism” for his relationship with Depero and Tavolato, for his “oneiric novels” and above all for the restructuring of a Norman tower in Positano, that he considered his “total work of art”. Clavel’s work is a paradigmatic example of the issue of artists of this time who are looking for a "elsewhere" as an ideal place for the production and it help us - according to the lesson of Walter Benjamin - to understand the epoch through the artistic way of the “marginal” authors

    Goethe e l'antico

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    Il tema Goethe e l’antico, contrariamente alle aspettative, non è un campo di ricerca molto frequentato dalla germanistica internazionale. Il presente volume, che raccoglie – in gran parte – i contributi tenuti al convegno internazionale svoltosi a Roma nel novembre del 1998, vuole rappresentare un cambio di paradigma nell’approccio al problema, in quanto prende in considerazione l’assieme del conforto di Goethe con l’antico, tanto nei suoi aspetti di teoria dell’arte, quanto nei suoi aspetti poetologici. Prima del 1770 il testo letterario acquisiva la sua autorità dalla tradizione antecedente che costituiva un rapporto con il passato come una catena senza soluzione di continuità. A partire da Goethe il testo non fonda più la sua autorità nei suoi riferimenti ad Omero o a Orazio, ma nella capacità combinatoria dell'autore che è in grado di riformulare i motivi poetici in modo da ricollocarli nel suo tempo e nel contempo di ridefinirne il significato anche rispetto all'antico. Goethe ha preso dall’antico temi, immagini, motivi perchè credeva che essi potessero esprimere letterariamente una serie di situazioni archetipiche in grado di essere recepite in ogni caso. Ma ha anche avuto l’intuizione geniale, e di una sconcertante modernità, di rappresentare tali immagini e tali motivi con un linguaggio adeguato alla capacità recettiva dei sui contemporanei e di costruirli in un contesto artistico adeguato alla comunicazione della sua epoca

    Klassische Moderne. Un paradigma del Novecento

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    Il libro, che pubblica gli atti del convegno internazionale, svoltosi a Roma nel maggio del 2007 nell’ambito della ricerca PRIN-2005 (Università di Roma La Sapienza, Trento, Bari e Urbino), analizza il periodo della cultura tedesca della fine-secolo con particolare attenzione ai personaggi e ai movimenti che si sono collocati negli “spazi intermedi”, intesi non solo e non tanto come zone di confine in senso territoriale, quanto piuttosto come zone di interscambio culturale e disciplinare, come tentativi di “superamento” degli ordini mentali e culturali costituiti. L’ambito cronologico che il gruppo di ricerca prende in esame va da 1888 al 1933. La periodizzazione proposta vuole rinviare a quella serie di movimenti e di pensatori che hanno dato il via alla messa in discussione di quei valori costituiti, dalla cui frammentazione è nata la cultura del “secolo breve”. In questo periodo, a partire dalla Jahrhundertwende, sono state elaborate e sperimentate nella prassi letteraria e artistica, una serie di teorie, una serie di “visioni del mondo” che implicavano tanto una pratica produttiva quanto un ruolo dell’artista e dell’arte quanto una visione più generale dei cambiamenti epocali e dell’epoca moderna. Tali teorie e pratiche artistiche, di vario genere e di vario livello, costituiscono un patrimonio concettuale perché in esse si trovano sperimentate e a volte anticipate molte questioni che oggi sono di estrema attualità: dal rapporto uomo-macchina al rapporto parola-immagine, dalla definizione degli spazi urbani alla questione della guerra, dalla ricerca della identità monoculturale alla presa d’atto dell’esistenza dell’estraneo. Queste varie problematiche sono state espresse in termini linguistici nuovi giacché gli autori si sono posti – teoricamente e praticamente – il problema del linguaggio artistico e ne hanno modificato (a volte radicalmente) i codici espressivi. Il libro di divide in tre parti: I: Per una definizione della Klassische Moderne che presenta l’ampia e animata discussione sulla stessa definizione teorica del movimento artistico-culturale, sia sui termini cronologici di questa nuova periodizzazione. Questa parte raccoglie i contributi di Aldo Venturelli, Helmut Kiesel e Fabrizio Cambi. II: La rivoluzione delle forme, che analizza la produzione delle avanguardie (sia pure definite “marginali” ) e prende in considerazione anche aspetti della produzione musicale, nonché forme di narratologia e nuove forme di scrittura. Questa seconda parte pubblica i saggi di Mauro Ponzi, Rosmarie Keller, Silvio Vietta, Hans Dieter Zimmermann, Elio Matassi e Sabine Meine. III: La fucina dei nuovi linguaggi che analizza l’innovazione dei linguaggi artistici sull’esempio di autori meno radicali che quelli delle avanguardie storiche. Questi autori, tipici esponenti della Klassische Moderne, hanno cercato di coniugare l’innovazione dei linguaggi con il recupero di alcuni aspetti della tradizione. Nella terza parte del volume vengono pubblicati i saggi di Alain Montandon, Giovanni Tateo, Gouseppe Farese, Gabriella Rovagnati, Sabine Schneider e Alessandro Fambrini
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