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    Mutazione del concetto di periferia. Tor Bella Monaca, l’ultima grande periferia pubblica

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    Questa tesi di Dottorato è frutto di un lavoro di ricerca effettuato negli ultimi tre anni nel quartiere di Tor Bella Monaca a Roma. Fondamentale, per l’orientamento della ricerca, è stato il rapporto continuo e produttivo con le associazioni e i comitati di cittadini, primi tra tutti il Comitato di Quartiere Nuova Tor Bella Monaca e l’Associazione Inquilini e Abitanti (AsIA). Il percorso della tesi è partito dall’assunto che questa città, come la società che essa rappresenta, ha subìto negli ultimi decenni un profondo mutamento di difficile interpretazione. La città, in ogni epoca storica, ha assunto significati diversi, ma questi erano facilmente intellegibili poiché le categorie dicotomiche quali città–campagna, luoghi per i ricchi – luoghi per i poveri, identificavano facilmente le separazioni materiali e immateriali, fornendo un’adeguata definizione della città. Il mondo contemporaneo invece, sprovvisto delle medesime categorie, non ha più gli strumenti appropriati per poter identificare e definire la città nella sua accezione spazio-temporale. Il primo obiettivo della ricerca è stato quello di analizzare la mutazione del concetto di periferia nella Roma moderna, con l’intento di cogliere il significato che il termine periferia oggi può assumere rispetto ai grandi quartieri di edilizia economica e popolare come Tor Bella Monaca. Il secondo obiettivo è stato quello di produrre una narrazione del quartiere, frutto di un intreccio di immagini create attraverso l’osservazione delle pratiche che definiscono il vissuto del luogo, utile a proporre un diverso modo di raccontare e di progettare la città. La metodologia con cui si è affrontato il percorso è consistita nella sperimentazione, sul campo, di diverse pratiche di conoscenza e di interpretazione del territorio, attraverso assidue frequentazioni, in grado di stimolare, di volta in volta, nuove osservazioni, indagini conoscitive dirette e indagini conoscitive indirette, interviste agli abitanti e confronto con le associazioni locali. Tutto ciò è stato utile a produrre una descrizione, sovrapposta ad un’auto-narrazione, elaborata mediante la partecipazione alla vita sociale del quartiere, con l’intento di offrire uno sguardo sulle dinamiche sociali e territoriali che caratterizzano il luogo. Il contributo alla ricerca urbanistica, e alla pianificazione in particolare, è quello di fornire una rappresentazione del quartiere di Tor Bella Monaca, ovvero uno strumento di conoscenza che costituisca il punto di partenza per suggerire idee volte ad indirizzare la realizzazione di Piani e Programmi urbanistici, uno strumento che sia in grado di far emergere attori sociali, pratiche e fenomeni, spesso poco visibili nelle loro dimensioni locali, che a volte sfuggono alla pianificazione classica. Proporre un diverso modo di raccontare e di progettare la città, per esplicitare i fattori identitari che caratterizzano e definiscono i luoghi, costituisce uno dei risultati auspicati. Nel primo capitolo la mia analisi ha come oggetto la mutazione della periferia nella Roma moderna, partendo dalla definizione fornita, da tre autori in tre periodi diversi, del concetto di periferia: da quella popolare e drammaticamente umana di Pasolini, rappresentata dalle borgate, a quella marginale di Ferrarotti, individuata nella Roma che non ha accesso alla vita sociale della città ed, infine, alla periferia di Walter Siti, ricercata anche nei vecchi quartieri borghesi che ultimamente sembra si siano imborgatati. Negli ultimi decenni Roma ha subìto trasformazioni profonde e gli scenari pasoliniani di Accattone e Mamma Roma sembrano ormai appartenere ad un’altra epoca: la periferia di oggi non è più la periferia desolata degli anni cinquanta. Centro e periferia, dopo una netta separazione, entrano in una fase di interazione e lentamente la periferia cambia volto: non più baracche, non più sottoproletariato, ma una struttura sociale complessa e frastagliata. Nel secolo scorso la periferia fisica corrispondeva ad una periferia anche in termini sociali e ciò determinava una netta contrapposizione con il centro storico: in essa vi si trovavano povertà, disoccupazione o sotto-occupazione, disagio, e tuttavia essa rappresentava, per chi la abitava, un luogo in attesa di entrare, fisicamente e socialmente, in città (PEZZETTA, 29). In questi luoghi le emarginazioni e le disuguaglianze costituivano il fattor comune di un ideale collettivo, di un’utopia da perseguire mediante la conquista della libertà sociale ed economica. Erano luoghi di disperazione e disincanto, ma anche luoghi in attesa di riscatto. Le borgate di Roma ospitavano gli espulsi dal centro storico e gli immigrati che giungevano dalle regioni del sud per sfuggire alla miseria del Mezzogiorno. Essi erano estranei alla città dal momento che, come sostiene Ferrarotti, erano esclusi dai suoi benefici ed erano lontani dalla sua vita sociale e politica. Tuttavia essi abitavano in una periferia che aveva dei connotati ben precisi e un’identità specifica. Quel luogo, pur sempre differenziato tra gli accampamenti di fortuna dei borghetti e tra le borgate, ufficiali o abusive, era immediatamente riconoscibile e ben diverso dal centro cittadino. Esso si caratterizzava come una struttura socialmente omogenea: era la cintura rossa costituita dagli operai edili che abitavano le case rapide o rapidissime del fascismo e votavano a sinistra (FUSO 2013, 10). Negli anni settanta, per questi abitanti, verranno realizzati i grandi insediamenti popolari di edilizia pubblica che segneranno un passaggio fondamentale nel contesto delle lotte per la casa. Pasolini, da frequentatore assiduo delle borgate, coglieva l’esistenza di due città: la città dei quartieri borghesi da una parte e dall’altra le borgate popolari che, vittime della società dei consumi, stavano subendo un profondo mutamento antropologico e si stavano imborghesendo. Ferrarotti qualche anno dopo sostiene invece che ci sono sempre due città, ma non sono quelle dei ghetti costituiti dai quartieri residenziali da una parte e dai quartieri popolari dall’altra, che pure resistono ancora. Ci sono sicuramente meno baracche di prima, ma la nuova tipologia edilizia tende a mascherare le differenze: è meno agevole oggi intuire dalla facciata della casa la condizione concreta di vita di chi vi abita dentro (FERRAROTTI 1991, 77). La vera differenza sta in una parte di città che ha accesso ai diversi livelli di potere e in un’altra che non ha possibilità di raggiungerne nessuno. Secondo Ferrarotti l’uscita dalle baracche è solo il primo passo per accedere ad una qualsiasi forma di emancipazione, anche se può non bastare. In alcuni casi potrebbe non essere addirittura indispensabile, per cui non è la dimensione fisica a determinare la periferia. Nella Roma contemporanea il confine netto tra centro e periferia si è progressivamente opacizzato rendendo sempre meno visibile, a livello geografico e sociale, la distinzione tra i due poli dialettici (FUSCO 2013, 10). All’interno dell’odierna periferia romana è facile notare la sempre più stridente coesistenza di quartieri di edilizia popolare, spesso espressione di acute forme di disagio, accanto a grandi poli commerciali o residenziali spesso sotto forma di gated communities (IVI, 11). Walter Siti oggi propone la visione contraria a quella fornita da Pasolini: non sono i borgatari che si sono imborghesiti, ma i borghesi che si sono imborgatati, nei costumi e quasi nello stile di vita, quindi oggi appare parziale o inefficace, ai fini della comprensione, la vecchia distinzione tra quartieri borghesi e quartieri popolari. La chiave di lettura di Siti costituisce una svolta nella tradizionale interpretazione della città suddivisa in centro e periferia: la cultura borgatara ha invaso il centro ma è anche mutata. Le borgate romane si sono trasformate in un miscuglio indistinto di realtà, che ha rotto i vecchi schemi e le strutture che le distinguevano, perdendo ogni senso di appartenenza, rompendo i vecchi legami di solidarietà e periferizzando ancor di più le relazioni sociali. Accanto a vecchi conflitti ne sono sorti altri e la convivenza all’interno di questi territori ha assunto forme non più solamente drammatiche, ma spesso anche esplosive. Dunque, se è possibile parlare di superamento della categoria di periferia come elemento geografico dalla connotazione specifica, quale significato assume oggi la vecchia periferia romana? Nel secondo capitolo ho definito il quartiere oggetto di ricerca: Tor Bella Monaca. Ho analizzato il contesto storico e culturale in cui si sviluppa la politica della casa, attraverso l’attuazione della legge 167/62 sull’edilizia popolare, e il significato che ha assunto, nel periodo delle lotte per l’emergenza abitativa, la realizzazione di un quartiere come Tor Bella Monaca. La mia domanda di ricerca verte sul seguente interrogativo: dopo oltre trent’anni dall’attuazione del primo PEEP di Roma, che cosa rappresentano oggi i grandi quartieri popolari come Tor Bella Monaca? Che cosa hanno rappresentato al momento della loro realizzazione? Che tipo di processo di trasformazione hanno subìto? Inizialmente pensati per fornire una risposta all’emergenza abitativa, oggi verso quale direzione tendono? La scelta del quartiere di Tor Bella Monaca, rispetto a tutti gli altri quartieri di edilizia popolare, è dovuta al fatto che esso è l’ultimo grande insediamento pubblico realizzato a Roma. All’epoca, centrale è stato il ruolo che il Welfare State, attraverso l’azione urbanistica, ha avuto nella fase cruciale in cui nella Capitale si poneva fine all’esperienza dei borghetti e delle baracche e si realizzavano i grands ensembles, con l’obiettivo di compiere il primo passo verso l’idea di una città in cui fosse garantito a tutti il diritto all’abitare. In quegli anni Roma era governata da una giunta di sinistra e il suo sindaco, Petroselli, proponeva un’idea ben precisa: accorciare le distanze, culturali e fisiche, tra il centro della città e la sua periferia. La periferia per la prima volta a Roma rappresentava il centro dell’azione politica e si avviava quel sogno di una casa per tutti, in cui si sarebbe realizzata l’idea di uguaglianza, che non rappresentava l’uguaglianza dell’omologazione culturale e consumistica profetizzata da Pasolini, non rappresentava la trasformazione della periferia che si voleva far diventare città al pari dei quartieri borghesi, ma era la periferia che entrava a far parte della città nell’acquisizione dei diritti (BAFFONI-DE LUCIA 2011, 8). Storicamente nelle borgate i diritti elementari furono conquistati attraverso la lotta e la determinazione degli abitanti, ma negli anni settanta quella coesione sociale si trasforma in organizzazione politica: strumento determinante per coloro che cominciano a prendere coscienza della propria condizione di marginalità (FUSCO 2013, 125). Si passa quindi da una solidarietà di mutuo-aiuto, che ha caratterizzato il periodo del dopoguerra, ad una solidarietà politica (IBIDEM). In quegli anni ci saranno dure lotte per la casa che hanno fortemente contribuito a portare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle condizioni di estremo disagio in cui versavano le periferie della città, la cui realtà veniva spesso ignorata o minimizzata dalle rappresentazioni ufficiali. Esse hanno creato le condizioni per la politica di risanamento delle borgate e l’avvio dei grandi piani di edilizia economica e popolare. La centralità dell’azione pubblica è un concetto, nel caso di Tor Bella Monaca, strettamente legato al ruolo della sua pianificazione urbanistica. Con l’attuazione della legge 167 vi era l’intento di poter regolare la crescita della città attraverso una pianificazione che fosse diretta emanazione dell’organizzazione centrale dello Stato e, allo stesso tempo, di bloccare la rendita fondiaria attraverso l’istituto dell’esproprio. In realtà così non è stato, almeno nel caso di Roma e per ciò che riguarda i suoi piani di edilizia economica e popolare, perché la localizzazione degli interventi, situati nelle aree distanti dal centro abitato, ha determinato l’instaurarsi di meccanismi di rendita dovuta all’aumento del valore delle aree intermedie. In tal senso le aspettative della legge 167, negli interventi dei grandi insediamenti pubblici degli anni settanta a Roma, sono state disattese, ma Tor Bella Monaca, rispetto a tutti gli altri grandi quartieri dell’epoca, come Corviale, Laurentino 38, Vigne Nuove, presenta una caratteristica importante: è l’unico caso in cui la gestione dell’intervento è affidata per quasi il 50% all’azione diretta del Comune. Di tutta l’edilizia sovvenzionata del quartiere quasi i 2/3 sono di proprietà del Comune di Roma, mentre la restante parte è di proprietà dell’ATER (all’epoca IACP). Questo dato, soprattutto considerando il fatto che la partecipazione comunale negli interventi di simili dimensioni e dello stesso periodo è pari a zero, è indicativo della volontà, da parte del Comune, di gestire direttamente la fase realizzativa e quella organizzativa del nuovo quartiere popolare. Ciò è più evidente se si considera la velocità della sua realizzazione: i primi alloggi sono stati consegnati dopo appena due anni, nel 1983, dalla delibera di concessione delle aree. Con Tor Bella Monaca, quartiere modello e fiore all’occhiello dell’Amministrazione, si doveva dimostrare che il ruolo della pianificazione si era guadagnato un’attitudine confrontabile con quella delle migliori esperienze straniere in materia di nuovi insediamenti abitativi (BAFFONI-DE LUCIA 2011, 61). Fu una stagione di grande impegno politico per Roma, ma durò anche poco. Non si realizzò il passaggio indispensabile dall’impegno eccezionale all’amministrazione ordinaria di buon livello (IBIDEM). Successivamente venne meno la responsabilità di gestione e di cura. L’assegnazione degli alloggi seguì una politica più opportunistica che di servizio e la mancata attuazione di servizi sociali e delle politiche di accoglienza ha contribuito ad incrementare quei problemi che caratterizzano, nello specifico, il quartiere oggi: emarginazione sociale, disoccupazione, detenzione domiciliare, disagio minorile. La realizzazione dei servizi pubblici di livello locale invece è dovuta quasi esclusivamente alle lotte e agli scioperi – ancora vivi nei ricordi degli abitanti sono i blocchi della via Casilina per intere giornate – portati avanti, in forma collettiva e organizzata, da cittadini e associazioni. Nel terzo capitolo, attraverso un’analisi urbanistica, ho cercato di individuare elementi, simboli, immagini, suoni che mi permettessero di definire il campo su cui produrre una narrazione del quartiere. I limiti della pianificazione urbanistica del Piano di zona di Tor Bella Monaca – emersi dalla volontà progettuale di realizzare i diversi comparti edilizi separati tra loro e di prestare attenzione principalmente ai flussi di attraversamento su larga scala – hanno generato una suddivisione del quartiere in due luoghi nettamente distinti. Essi differiscono tra loro non solo dal punto di vista dell’organizzazione spaziale, ma anche rispetto all’uso che gli abitanti fanno di determinati spazi, influenzando sia il rapporto abitante-territorio sia le relazioni che si instaurano tra gli abitanti stessi, condizionando quindi il rapporto abitante-abitante. L’elaborazione della mappa dei luoghi ha permesso di definire meglio questi due luoghi, che si collocano a nord e a sud del quartiere, e di focalizzarne le differenze. L’analisi prodotta intende dimostrare come le diverse forme degli spazi del quartiere abbiano influenzato gli usi dello spazio e le relazioni sociali: dalla visione, fortemente marginale, fornita dalla zona nord del quartiere, a quella più dinamica e partecipata offerta dalla zona situata a sud. Tutto ciò determina l’individuazione di due luoghi che vengono percepiti dagli abitanti in maniera diversa. Autorganizzazione e cura degli spazi, maggiore gestione, sia dei fenomeni di devianza che delle occupazioni senza titolo, si riscontrano nei comparti edilizi R8, R11 ed R15, situati nella parte sud del quartiere, nei pressi di largo Mengaroni; occupazioni conflittuali e rapporti destabilizzanti si riscontrano invece nella parte nord, principalmente all’interno dell’R5, e più in generale lungo via dell’Archeologia, con conseguente difficoltà di relazione tra gli stessi abitanti e con l’instaurarsi di fenomeni di invisibilità, associati ad un maggiore controllo del territorio da parte della criminalità organizzata. Emerge per questa zona una realtà difficile da penetrare perché caratterizzata da codici, segni e linguaggi naturalmente diretti, immediati, impetuosi che creano una sorta di barriera di incomunicabilità nei confronti degli estranei al contesto. Nella zona di largo Mengaroni, invece, la notevole presenza di associazioni e servizi per il quartiere determina una maggiore dimensione di spazio pubblico che genera forme di apertura e confronto, pur sempre conflittuale, tra gli abitanti. Tutto ciò non esclude il fatto che queste due zone forniscano un’unica rappresentazione dell’intero quartiere ma ciò che le distingue, ad un’analisi più approfondita, è la modalità di organizzazione, più o meno diffusa, dei processi relazionali. Il contrasto tra questi due luoghi fa quindi da sfondo ai diversi racconti presenti nel quarto capitolo, in cui si intrecciano le storie degli abitanti con i quali sono entrato in contatto in questi anni di ricerca. Nei racconti ho cercato di far emergere tutte le percezioni, le impressioni che ho ricevuto, mettendo in evidenza la diversa sensazione che gli abitanti mi hanno trasmesso in relazione ai due luoghi. I racconti non rappresentano altro che il mio modo di vedere il quartiere nel senso che, se qualcuno mi chiedesse di parlargli di Tor Bella Monaca, non saprei descriverla in maniera diversa. Non mancano nei racconti la disperazione unita a qualche forma di speranza, la marginalità arginata alle volte da piccole pratiche di solidarietà ed espressioni di emozioni portate spesso all’estremo e coesistenti in uno stesso luogo, in una stessa storia, in una stessa persona. Nel quinto capitolo ho cercato di individuare i segnali che oggi emergono da Tor Bella Monaca. Dopo la realizzazione del quartiere, la crisi di gestione, frutto del fallimento delle politiche abitative, ha generato un vuoto istituzionale che gli abitanti hanno cercato di colmare attraverso forme di autogestione percepite dagli stessi come legittime. Si sono costruite delle regole comuni, delle norme condivise, e in questa sorta di auto-governo, un aspetto dominante consiste nella negoziazione – con caratteristiche spesso conflittuali – di spazi e di diritti che dovrebbero invece essere riconosciuti e non conquistati: dalle complesse dinamiche di accesso all’alloggio pubblico, che comprendono fenomeni di occupazione accanto a quelli sempre meno frequenti delle assegnazioni, alla creazione dello spazio pubblico, ottenuto come produzione spontanea piuttosto che come esito progettuale, alle strategie di controllo del territorio ad opera della criminalità organizzata. Al di fuori di queste dinamiche, in questo quartiere, è piuttosto difficile farsi riconoscere un diritto nell’ambito della legalità, e chi non ha la forza di lottare viene spesso escluso. Come molte altre periferie, Tor Bella Monaca ha vissuto il declino della solidarietà politica: dalle lotte per il diritto alla casa, che avvenivano attraverso forme di organizzazione collettiva ed inclusiva, alle odierne lotte per la casa, che avvengono sotto forma individuale ed escludente. Dopo un primo periodo in cui gli abitanti percepivano una forte volontà di coesione e mutuo-aiuto ed in cui la lotta ne ha strutturato legami e appartenenza, oggi, l’egoismo privato, indotto da una strategia di controllo sociale che permette di perseguire la superficialità pubblica, si è concretizzato con una sorta di restringimento della dimensione spaziale-relazionale fino a raggiungere la soglia minima della rete familiare o di vicinato. Pertanto oggi al posto della solidarietà politica nella dimensione macro del quartiere, troviamo un sentimento solidale in quella micro del pianerottolo o della scala, in cui spesso i legami di vicinato permettono una sopravvivenza, all’ombra del lecito e dell’illecito, in un quartiere dove vige la logica del far da sé. Dall’inferno di una realtà fortemente disagiata emergono luci e ombre. Per molti aspetti la logica del far da sé ha instaurato meccanismi di sopravvivenza che hanno permesso di risolvere molti problemi quotidiani, ma hanno anche generato uno stato di illegalità diffusa dal quale è più difficile riemergere, e dal quale diventa persino problematico rivendicare diritti: l’unica soluzione è, quindi, quella di conquistarseli. Queste dinamiche da un lato sviluppano forme di progettualità locali, a volte condivise tra gli abitanti, e valorizzazione di risorse latenti permettendone l’attivazione e la promozione di percorsi costruttivi, ma dall’altro riducono la possibilità di fuoriuscita dal recinto. In tale contesto è facile il dilagare di fenomeni criminali che si alimentano del disagio diffuso e della mancanza di prospettive; contesti che creano un terreno fertile che favorisce la criminalità organizzata. Essa si sviluppa con l’assenza delle regole e la complicità o l’incapacità delle istituzioni e ricatta i soggetti più deboli agendo sui loro bisogni primari. In questi quartieri la criminalità rappresenta, spesso, l’unico ascensore sociale, l’unica possibilità di riscatto in quanto subentra alla mancanza dello Stato e crea essa stessa welfare: si insinua in maniera subdola nei comportamenti quotidiani dei cittadini e spezza il legame che c’è tra povertà e onestà. Ma contestualmente a tali dinamiche emergono anche altre forme di progettualit

    Refractory and 17p-deleted chronic lymphocytic leukemia: improving survival with pathway inhibitors and allogeneic stem cell transplantation.

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    ABSTRACT Refractory/early relapsed and 17p deletion/p53 mutation (del(17p)/TP53mut)-positive chronic lymphocytic leukemia (CLL) has been conventionally considered a high-risk disease, potentially eligible for treatment with allogeneic stem cell transplantation (alloSCT). In this multicenter retrospective analysis of 157 patients, we compared the outcomes of patients with high-risk CLL treated with alloSCT, a B-cell receptor pathway inhibitor (BCRi), and both. Seventy-one patients were treated with BCRis, 67 patients underwent reduced-intensity conditioning alloSCT, and 19 received alloSCT with a BCRi before and/or after transplantation. Inverse probability of treatment weighting analyses were performed to compare the alloSCT and no-alloSCT groups; in the 2 groups, 5-year OS, PFS, and cumulative incidence of nonrelapse mortality (NRM) and relapse were 40% versus 60% (P = .096), 34% versus 17% (P = .638), 28% versus 5% (P = .016), and 38% versus 83% (P = .005), respectively. Patients treated with alloSCT plus BCRi had a 3-year OS of 83%. The 3-year OS and NRM by year of alloSCT, including patients treated with BCRi, were 53% and 17% in 2000 to 2007, 55% and 30% in 2008 to 2012, and 72% and 18% in 2013 to 2018. In conclusion, the combination of pathway inhibitors and alloSCT is feasible and may further improve the outcome of high-risk CLL patients

    IGHV gene mutational status and 17p deletion are independent molecular predictors in a comprehensive clinical-biological prognostic model for overall survival prediction in chronic lymphocytic leukemia

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    Prognostic index for survival estimation by clinical-demographic variables were previously proposed in chronic lymphocytic leukemia (CLL) patients. Our objective was to test in a large retrospective cohort of CLL patients the prognostic power of biological and clinical-demographic variable in a comprehensive multivariate model. A new prognostic index was proposed

    Efficacy of bendamustine and rituximab as first salvage treatment in chronic lymphocytic leukemia and indirect comparison with ibrutinib: A GIMEMA, ERIC and UK CLL FORUM study

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    We performed an observational study on the efficacy of bendamustine and rituximab (BR) as first salvage regimen in chronic lymphocytic leukemia (CLL). In an intention-to-treat analysis including 237 patients, the median progression-free survival (PFS) was 25 months. The presence of del (17p), unmutated IGHV and advanced stage were associated with a shorter PFS at multivariate analysis. The median time-to-next treatment was 31.3 months. Front-line treatment with a chemoimmunotherapy regimen was the only predictive factor for a shorter time to next treatment at multivariate analysis. The median overall survival (OS) was 74.5 months. Advanced disease stage (i.e. Rai stage III-IV or Binet stage C) and resistant disease were the only parameters significantly associated with a shorter OS. Grade 3-5 infections were recorded in 6.3% of patients. A matched-adjusted indirect comparison with ibrutinib given second-line within Named Patient Programs in the United Kingdom and in Italy was carried out with OS as objective end point. When restricting the analysis to patients with intact 17p who had received chemoimmunotherapy in first line, there was no difference in OS between patients treated with ibrutinib (63% alive at 36 months) and patients treated with BR (74.4% alive at 36 months). BR is an efficacious first salvage regimen in CLL in a real-life population, including the elderly and unfit patients. BR and ibrutinib may be equally effective in terms of OS when used as first salvage treatment in patients without 17p deletion. (Registered at clinicaltrials.gov identifier: 02491398)

    Tor Bella Monaca il ‘diritto alla città’ tra autocostruzione e auto-organizzazione

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    Fuori dal Grande Raccordo Anulare di Roma si trova Tor Bella Monaca, un quartiere suddiviso in due zone distinte che hanno avuto una diversa evoluzione; diversa è stata la loro storia, il periodo di insediamento e il loro processo di trasformazione. La borgata, sorta spontaneamente agli inizi degli anni ’40, è caratterizzata da abitazioni private di pochi piani con orti e giardini. Il quartiere popolare, invece, nato agli inizi degli anni ’80, è caratterizzato da costruzioni imponenti di edilizia residenziale pubblica. La borgata è stata autocostruita, dagli immigrati provenienti dalle regioni del sud, con grande spirito di sacrificio secondo quel processo di edificazione definito ‘abusivismo di necessità’. Il quartiere residenziale, invece, è stato realizzato – nell’ambito del primo PEEP di Roma – con l’intento di fronteggiare l’emergenza abitativa ospitando una popolazione proveniente da contesti molto svantaggiati, legati sia a condizioni abitative precarie sia a condizioni di debolezza economica e sociale. La sua storia è legata alle lotte per i servizi, alla partecipazione, agli scioperi dei suoi abitanti costretti ad auto-organizzarsi per emergere dallo stato di abbandono sociale in cui erano stati relegati. Tor Bella Monaca oggi è conosciuto come il quartiere del degrado e dell’abbandono, dello spaccio di droga e della criminalità organizzata, ma è anche ostinazione diffusa e voglia di riscatto di tanti cittadini e associazioni che, attraverso pratiche di autogestione degli spazi pubblici, cercano di ‘prendersi cura’ del proprio territorio.Outside the GRA of Rome Tor Bella Monaca is located, a district divided into two distinct areas that have evolved in different ways, different was their history, the period of settlement and their transformation process. The village, which arose spontaneously in the early '40s, is characterized by low-rise private dwellings with gardens and orchards. The neighborhood, however, born in the early 80s, is characterized by massive construction of public housing. The township was self-made, by immigrants from the southern regions, with a great spirit of sacrifice according to that process of building called 'illegal necessity'. The residential area, however, has been realized - in the first PEEP of Rome - with the intent to tackle the housing crisis by hosting a population from very disadvantaged backgrounds, both linked to poor housing conditions both in terms of economic weakness and social development. Its history is linked to the struggles for services, participation in strikes of its inhabitants forced to self-organize to emerge from the state of social abandonment in which they were relegated. Tor Bella Monaca today is known as the district of decay and abandonment, drug dealing and organized crime, but it is also widespread persistence and desire for redemption of many individuals and organizations who, through practices of self-management of public spaces, seek to 'take care' of their territory

    Esportare fuori Roma i rifiuti di Roma

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    La gestione dei rifiuti a Roma è un caso emblematico sia dei grandi cambiamenti che stanno interessando la città e stanno attraversando la più vasta area metropolitana, dentro e fuori il territorio comunale, sia dei difficili e conflittuali rapporti tra la Capitale e i territori contermini. Il contributo vuole rivolgere una particolare attenzione agli impatti ambientali, che un grande sistema urbano produce sul territorio circostante, e alle ricadute territoriali delle politiche di gestione dei rifiuti messe in atto dall’amministrazione pubblica. L’area individuata per approfondire tali questioni riguarda il settore est di Roma: più precisamente il quartiere di Rocca Cencia compreso, all’esterno del Grande Raccordo Anulare, tra la via Prenestina e la via Casilina

    Memorie in movimento a Tor Bella Monaca. Un approccio per ricercare il senso dei luoghi

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    Il libro vuole affrontare una riflessione sul tema della memoria, come possibile dispositivo di rappresentazione di un luogo. Lo spunto per tale riflessione parte dalla realizzazione del Progetto Me.Mo. - Memorie in movimento, realizzato di recente nel quartiere di Tor Bella Monaca a Roma. Il progetto è nato per affrontare il tema della fragilità delle relazioni sociali, che nell’odierna periferia incide notevolmente sulle possibilità di riscatto, ricostruendo alcune vicende storiche ritenute importanti nel processo evolutivo del quartiere: le lotte popolari per i servizi degli anni ’80 del secolo scorso, portate avanti con impegno, solidarietà e partecipazione. Tali lotte hanno permesso di ottenere molti risultati in termini di conquiste e rivendicazione di diritti. Si è andati alla ricerca di storie dimenticate per rielaborare una memoria che si pensava oramai persa; una memoria che, tra le tante possibili, si ritiene essere la più rappresentativa e paradigmatica del quartiere di Tor Bella Monaca

    Spazio pubblico e periferie

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    La città di Roma negli ultimi decenni è cambiata molto. Nel secolo scorso la sua periferia si caratterizzava come una struttura omogenea che tendeva a far coincidere sia la dimensione fisica che quella sociale nella stessa condizione di emarginazione rispetto al resto della città. Oggi la dicotomia centro-periferia in termini puramente fisici non è più adatta a cercare di rappresentare la città e la periferia ha subìto trasformazioni che la connotano sotto altre declinazioni. Quest’ultima era quel luogo, fisicamente ben connotato, che si poneva ai margini della città e in cui le disuguaglianze e le speranze dei suoi abitanti venivano ricondotte ad un ideale collettivo in attesa di un riscatto. Riscatto che sarebbe avvenuto attraverso il miglioramento delle proprie condizioni economiche e si sarebbe concretizzato attraverso il trasferimento verso quartieri più centrali; allo stesso tempo ciò avrebbe garantito anche la fine della condizione di disagio sociale tipica delle masse che vivevano in periferia. Questi luoghi erano abitati dal sottoproletariato, o dal proletariato intermittente come lo definiva Franco Ferrarotti, che lavorava nel settore edilizio e che aspirava ad entrare a far parte della città propriamente detta. Oggi la periferia è stata inglobata dalla città. Basti pensare ai grandi insediamenti di edilizia economica e popolare realizzati all’esterno del tessuto urbanizzato: tra questi quartieri e la città c’era il vuoto che oggi è stato colmato perché la città è cresciuta, senza però risolvere la marginalità nella sua dimensione sociale. Anzi, da questo punto di vista i problemi sembrano essersi amplificati e l’immagine dominate della periferia odierna è quella dell’abbandono dei suoi quartieri e dei suoi abitanti. L’azione pubblica che con grande impegno ha realizzato questi grandi insediamenti non è stata successivamente capace di scongiurare l’aumento di disuguaglianze e di disagio, frutto della difficoltà di mediazione tra la governance e le istanze di questi territori. Eppure uno sguardo dal basso e dall’interno delle periferie spesso permette di restituire un’immagine che non è solo caratterizzata dai tradizionali stereotipi del degrado e dell’abbandono, ma è in grado di fare emergere il complesso, quanto poco conosciuto, intreccio di relazioni tra luoghi e abitanti. Emergono soprattutto numerose forme di progettualità; gli spazi pubblici, intesi come luoghi dove si produce una dimensione pubblica, sono spesso frutto di conquista da parte di gruppi di abitanti e di associazioni locali. E’ proprio in questi luoghi che spontaneismo e partecipazione si rivelano veri e propri motori di coesione sociale; più che nel centro storico, sottratto ai romani e diventato museo per i turisti, è proprio nelle periferie che si muove, si trasforma e si produce la città. Esperimenti spesso puntuali che faticano a costruire una rete più ampia che vada oltre la dimensione del quaretiere ma che sono numerosi e caratterizzanti il territorio. La periferia di oggi è disseminata di tanti laboratori sociali che tendono ad essere strumento di aggregazione, di progettazione e di trasformazione del territorio, con l’intento, non sempre facile, di contribuire alla rigenerazione socio-territoriale di luoghi divenuti oramai degradati. Dalla semplice azione di cura e gestione di uno spazio alla costruzione di pratiche di recuparo di luoghi abbandonati, tali iniziative portano i cittadini coinvolti a mobilitarsi verso forme di cooperazione e di valorizzazione delle risorse. Tali pratiche sono, a volte, esperienze ormai radicate nei territori da diversi anni e hanno prodotto un linguaggio di interpretazione delle istanze e dei bisogni locali spesso riconosciuto dalla cittadinanza per cui eventuali piani o programmi di rigenerazione urbana non possono prescindere da queste esperienze nel tentativo di essere incisivi nelle risposte ai problemi. La questione semmai è capire in che modo tali esperienze possano rappresentare esempi riproducibili di produzione di spazio pubblico e in che modo l’Amministrazione locale possa interagire con esse senza doverle necessariamente classificare come un qualcosa che è al di fuori della legalità o di sbagliato a priori. Di fatto queste esperienze sono quelle che hanno tenuto insieme gli equilibri all’interno di quartieri, come quello di Tor Bella Monaca, che hanno subìto negli anni processi di emarginazione non ancora risoluti. Se non ci fossero state queste esperienze di resistenza molto probabilmente la periferia avrebbe sofferto derive ancora peggiori di quelle attuali

    Riscoprire progettualità e risorse locali

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    Questo contributo da conto dei primi risultati di una attività di ricerca dedicata a riscoprire collettivamente le risorse e le progettualità locali, all’interno di una esperienza di tipo ‘ricerca-azione’ tuttora in corso. All’interno delle finalità generali del Workshop ‘Abitare Tor Bella Monaca’, gli obiettivi del gruppo ‘Progettualità e risorse latenti’ consistono principalmente nell’aiutare gli abitanti a riconoscere le risorse locali, sia materiali che immateriali, in larga misura ignorate o sottovalutate. Questa operazione di riconoscimento è stata interpretata come primo passo verso, e in un certo senso come funzionale a, la ricostruzione di senso di comunità, percepito come perduto, attraverso la riscoperta di una storia comune e di una comune responsabilità per il presente e il futuro del quartiereThis contribution derives from an action-research practice whose main focus is to help inhabitants to rediscovering their own planning capacities and the local resources they might use in order to increase their living environment, both built and natural, as well as their quality of life. The main thesis sustained here regards the meaning of self-organization as a form of empowerment, and as a way to become able to speak to (and being heard by) Institutions, which are progressively felt as distant and inefficient. A background idea is that civil society should act as goad to Institutions
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