Rivoluzioni Molecolari (E-Journal)
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Ricostruire tramite la manipolazione. Il montaggio tra immagine dialettica e détournement
Il montaggio assume sicuramente un ruolo centrale all’interno del pensiero benjaminiano sulla storia. Già a partire da L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è possibile cogliere l’interesse di Benjamin per l’elemento più innovativo e caratteristico del dispositivo cinematografico, il montaggio. Le inedite e rivoluzionarie possibilità aperte da questo nuovo metodo di esposizione del reale conducono Benjamin ad immaginarne un rinnovato impiego al di fuori dell’ambito prettamente cinematografico e visivo. Il montaggio applicato alla ricostruzione storica consente di far emergere contenuti profondi del reale finora invisibili, configurandosi così come un inedito strumento conoscitivo. Anche all’interno del Passagenwerk sono vari i frammenti in cui Benjamin espone le possibili implicazioni e novità introdotte dall’uso del montaggio nella ricostruzione di un’epoca e in cui annuncia la possibilità di un rinnovamento dell’intera storiografia materialista reso possibile dall’assunzione del «principio del montaggio nella storia»[1]. Quest’idea giunge alla propria formulazione più matura nelle Tesi sul concetto di storia, dove la ricostruzione della storia in immagini dialettiche viene presentata come possibilità innovativa in grado di rendere finalmente possibile la presentazione della storia nella sua fluidità dialettica reale. Ricostruire la storia per immagini dialettiche significa infatti costruire, montare la storia disponendo gli eventi secondo un «principio costruttivo»[2], non cadendo dunque nel piatto continuum storicista, ma facendo in modo che ogni singolo frammento conservi all’interno di sé l’elemento dialettico, per essere successivamente ri-esposto come frammento dialettico di un processo dialettico, in altre parole come frammento carico della propria conflittualità originaria e allo stesso tempo in grado di trasportare questa conflittualità nel presente. L’immagine dialettica è «l’immagine rapida [che] coincide con l’agnizione dell’“adesso” nelle cose»[3] e tramite essa «l’esposizione materialistica della storia conduce il passato a portare in una situazione critica il presente»[4]. Esattamente in questo orizzonte teorico si potrà comprendere a pieno l’estensione del Passagenwerk, sul quale, non a caso, Benjamin scrive: «metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. […] Stracci e rifiuti […] non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli»[5].Quest’idea di ri-configurazione del passato che, a vari livelli, accompagnò Benjamin per tutta la propria produzione teorica riappare insospettabilmente nella storia una ventina d’anni più tardi. Siamo alla fine degli anni 50’, il mondo, la società, le città di cui parlava Benjamin sono irriconoscibili, ma di nuovo questo principio animatore torna a farsi strada prepotentemente e stavolta proprio in quel terreno che in germe aveva ispirato la sua nascita, il cinema. L’Internazionale Situazionista, un movimento politico e artistico che trova in Guy Debord il principale animatore, inventa una pratica utilizzata principalmente per la creazione di film, il détournement, in cui l’uso del montaggio e la finalità di questo stesso utilizzo sono per molti aspetti avvicinabili e in continuità con l’intuizione benjaminiana. Praticare un détournement significa prendere possesso di parti di opere preesistenti, strappandole così dal proprio contesto usuale, e rimaneggiarle per inserirle poi in nuovi accostamenti di senso, andando così a creare una nuova relazione di significato. Il détournement è quindi «il riutilizzo in una nuova unità di elementi artistici preesistenti[6]» e, com’è chiaro, il montaggio costituisce il cuore e il valore profondo di tale pratica; ma la finalità, lungi dal limitarsi a vaghe ambizioni estetiche, si colloca al contrario sul terreno politico e conflittuale già indicato da Benjamin: «l’“appropriazione indebita” restituisce alla sovversione le conclusioni critiche passate che sono state imbalsamate in verità rispettabili»[7]. Si tratta dunque di manipolare il passato per restituirlo al presente, ma di restituirlo non come oggetto storico statico, bensì come elemento conflittuale al servizio della prassi critica e rivoluzionaria; il montaggio è esattamente ciò che rende possibile questa manipolazione riattualizzante.Per costruire il parallelismo appena delineato il mio articolo intende snodarsi su vari piani di lavoro, in particolare si concentrerà sul rilievo che la citazione da un lato e il metodo del montaggio dall’altro assumono nei lavori di Walter Benjamin e Guy Debord. Il primo paragrafo analizzerà la pratica citazionale come elemento di decostruzione, di sottrazione del passato al passato, con particolare riferimento alla costruzione di immagini dialettiche e agli spazi di gioco aperti da tale pratica nel presente. Quindi mi concentrerò sul détournement, la sua nascita, il funzionamento e soprattutto il suo impiego politico anti-spettacolare all’interno della produzione debordiana. Nel secondo ed ultimo paragrafo si cercherà di sottolineare l’importanza dell’utilizzo del montaggio allo scopo di dotare gli elementi citati di un secondo significato che emerge, si mostra, nella loro messa in relazione, la necessità dunque di un lavoro positivo di montaggio che innerva sia la filosofia di Benjamin che i lavori di Debord. In particolare, si metterà in luce la profonda correlazione tra i due autori che si rivela nell’intuizione che il montaggio storico sia in grado di creare una narrazione storiografica che permetta di restituire il passato all’uso del presente attraverso l’immagine dialettica da un lato e il détournement dall’altro.L’obiettivo sotteso alla trattazione sarà quello di mantenere una costante comparazione tra i due autori che possa svelare le affinità, ma anche le differenze, fra queste due pratiche. In particolare lavorerò su tre elementi di continuità: primo, la decisione di entrambi di lavorare con elementi preesistenti, con citazioni, ma in una maniera tale da scardinare il concetto stesso di citazione; secondo, il ruolo centrale assunto in entrambe le formulazioni dal montaggio, dalla pratica cioè di manipolare elementi già dati per creare qualcosa di nuovo tramite la messa in relazione di questi stessi elementi in una nuova costellazione di significato; terzo, la finalità dell’impiego di questa stessa pratica, indicata, da entrambi, nella riappropriazione degli elementi del passato nell’ottica di una loro restituzione all’uso sovversivo del presente. Scopo di tale analisi comparativa, che verrà condotta tramite libero accostamento tra le tematiche degli autori, ma sempre sulla base di un saldo e rigoroso ancoraggio ai testi esaminati che verranno citati in modo scrupoloso e puntuale, sarà quello non solo di evidenziare il legame profondo che lega le riflessioni dei due autori, legame su cui esiste, all’oggi, una limitata letteratura critica, ma anche e soprattutto quello di rendere evidente l’attualità di tali riflessioni e il valore che l’utilizzo del montaggio come strumento di decostruzione e critica può avere anche nella società contemporanea.[1] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, in R. Tiedemann, H. Schweppenhàuser (a cura di), Opere complete di Walter Benjamin, 9 voll., Einaudi, Torino 2002-2014, vol. IX, N 2, 6, p. 515.[2] Id., Sul concetto di storia (1966), a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, tesi XVII, p. 51.[3] Id, I «passages» di Parigi, cit., O° 81, p. 947.[4] Ivi, N 7a, 5, p. 528.[5] Ivi, N ɪa, 8, p. 514.[6] Internazionale Situazionista., Il détournement come negazione e come preludio, in «Internazionale situazionista», 3 (1959), in Internazionale Situazionista 1958-69, Nautilus, Torino 1994, p. 10.[7] G. Debord, La società dello spettacolo (1967), Baldini&Castoldi, Milano 2013², § 209, p. 175
Introduzione. Tensione utopica ed ethos democratico
A Brescia, venerdì 5 e sabato 6 maggio 2017, in occasione del decennale dell’Associazione Culturale Odradek XXI, numerosi relatori provenienti da diversi ambiti disciplinari (filosofia, giurisprudenza, letteratura, architettura, storia, scienze politiche) contribuivano a mettere a fuoco il tema Ethos democratico e pensiero critico. Saperi, istituzioni, soggettivazioni. Il presente numero di Rivoluzioni Molecolari raccoglie alcuni degli interventi più significativi di quelle giornate. La lettera inviata ai relatori in occasione dell’evento dal prof. Pietro Zanelli, fondatore e presidente di Odradek XXI, funge qui da introduzione
Per una scuola democratica
Questo contributo è un tentativo di attraversare la questione del rapporto tra democrazia e saperi dal punto di vista di uno dei molti contesti che compongono lo spazio democratico, la scuola. Si tratta di una prospettiva fondamentale da considerare se è vero, come credo, che il problema della scuola, ridotto ai suoi termini essenziali, è il problema della democrazia, da un punto di vista costitutivo anche perché “costituzionale”. Fu Piero Calamandrei a definire la scuola «organo costituzionale», proprio all’interno di quel dibattito sulla scuola, iniziato nella fase costituente e poi proseguito negli anni successivi, intorno al ruolo della scuola nello stato democratico e in rapporto alla costituzione democratica. La questione, sebbene lo Zeitgeist non consenta di porla negli stessi termini, costituisce a ben vedere il fulcro dei dibattiti che intorno alla scuola si stanno sollevando anche in questi ultimi anni, dai circuiti più mediatici e meno esperti, a quelli più vicini e interni al mondo della scuola. Al centro di tali dibattiti vi sono infatti temi come la meritocrazia, lo stato dell’insegnamento della lingua italiana (si pensi alla cosiddetta “Lettera dei seicento universitari al governo”), il destino di un percorso “inattuale” come il liceo classico e della formazione liceale in genere, la piaga della dispersione e dell’abbandono scolastico. Dietro a tali questioni si profila sempre – come si accennava spesso implicita, non posta, o posta male ˗ la questionedella democrazia, che oggi diviene fondamentalmente quella del senso e del finedella scuola in un’epoca contemporanea che unisce istruzione di massa e rivoluzione digitale
Nomadico/Monadico. Il paradigma espositivo alternativo degli spazi artistici indipendenti
Nel contesto globale, agitato da incessanti cambiamenti e crescenti spostamenti di persone, conoscenze, merci e capitali, la categoria ordinatrice del Nomadismo permea il pensiero contemporaneo, muovendo trasversalmente dall’ambito filosofico agli altri campi del sapere e dell’agire umano, e imponendo una radicale revisione dei paradigmi disciplinari. Tale concetto si propone come preziosa chiave interpretativa delle trasformazioni in atto, su “mille e più piani” di lettura: come fenomeno, che riguarda l’abitare umano e gli spostamenti nello spazio fisico-geografico; come metafora, che veicola l’idea di abitare lo iato “fra” differenti territori culturali; come metodo, che rimanda al cosiddetto “nomadismo culturale”, ovvero l’incontro e l’ibridazione di una pluralità di punti di vista; e, infine, come attitudine dell’uomo rispetto allo spostamento del e nel proprio spazio vitale e come capacità, dello spazio abitabile, di ospitare l’erranza “(trans)umana”
L\u27etica habermasiana e la costruzione di una teoria della democrazia
Nel volume Etica del discorso (1983), Habermas formula i principi della sua prospettiva morale; soprattutto, dà una formulazione chiara al principio dell’etica, che viene articolato in un principio che Habermas chiama U, cioè di universalizzazione, e in un principio D, che sarebbe il vero e proprio principio dell’etica del discorso. È quindi una riflessione che si articola in due momenti. In sostanza, il principio D afferma che possono pretendere validità soltanto quelle norme che possono trovare il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti a un discorso pratico. Nel discorso e nelle interazioni linguistiche vengono sollevate continuamente pretese di validità normativa rispetto a ciò che si dice e ai comportamenti che si tengono. Una pretesa di validità normativa viene riscattata attraverso il consenso di tutti i soggetti coinvolti, quindi la conclusione a cui Habermas giunge e che formula nel principio D è appunto che una norma è valida se può trovare il consenso di tutti i soggetti coinvolti in quanto partecipanti a un discorso pratico. Ma come è possibile trovare per una norma il consenso di tutti gli interessati e i coinvolti
La politica dei mezzi puri. Sui paragrafi 10 e 11 di Sulla critica della violenza di Walter Benjamin
Questo articolo è incentrato sull’analisi dei paragrafi 10 e 11 di Sulla critica della violenzadi Walter Benjamin. In particolare, si sofferma su due aspetti: la funzione della polizia nell’ordinamento giuridico dello Stato e la “politica dei mezzi puri”. Benjamin considera sia la polizia che la politica dei mezzi puri come appartenenti al “regno dei mezzi”, ma rappresentano due configurazioni alternative di politica. Lo Stato di polizia esemplifica l’arte di governo che si produce quando “lo stato di eccezione è la regola”, cioè quando la paura della violenza costantemente riprodotta svolge una funzione disciplinare. Al contrario, la politica dei mezzi puri indica la possibilità di una politicizzazione degli esseri umani sulla scorta di disposizioni soggettive diverse se non alternative a quella paura che la tradizionecontrattualista della politica moderna ha assunto come movente fondamentale pergiustificare l’istituzione dell’ordinamento giuridico dello Stato
Sulle tracce di Benjamin. Furio Jesi interpreta Walter Benjamin
Lo scopo di questo articolo è quello di osservare la ricezione e l’interpretazione di Walter Benjamin nelle opere di Furio Jesi. In esse non è quasi mai rintracciabile un lavoro diretto sull’autore, bensì un’opera d’interpretazione sottotraccia. Per Jesi questo significa consegnare ad un autore la propria leggibilità. I testi che vengono analizzati e nei quali viene osservato questo tema sono tre: Kierkegaard, Bachofen e Il testo come versione interlineare del commento. Nel primo viene indagato il rapporto con la figura del maestro ed il modello di scrittura volto a tendere trappole al proprio lettore, in modo da rendere necessaria una lettura attiva. Nel testo su Bachofen Jesi propone un’opera interpretativa che pone Benjamin all’interno del Kampf um Creuzer Symbolik e, tramite la lettura tra le righe, lo “salva” dall’appropriazione da parte del nemico. L’ultimo breve testo si occupa, infine, di chiarire la strategia interpretativa messa in pratica da Benjamin applicandola a Benjamin stesso. Si chiarisce così come il saggio divenga forma privilegiata per l’interpretazione di altri testi e persino testo sacro, il cui testo di partenza funga da commento tra le righe. Il compito di interpretare è una chiamata politica a schierare i testi sul campo di battaglia culturale, per la creazione di un futuro non intrappolato da un passato mitico
Il mélange dialettico come immedesimazione inespressiva nell’alterità in Benjamin lettore di Goethe
Uno dei cavalli di battaglia del Benjamin teorico letterario è certamente il rifiuto programmatico della Einfühlung, ossia dell\u27immedesimazione superficiale ma violenta da parte del soggetto lettore nell\u27oggetto da leggere, laddove in realtà il primo sovrapporrebbe forzatamente e ad hoc categorie interpretative proprie ad un\u27opera che verrebbe quindi ridotta a puro strumento inerte, privo di un reale contenuto e di una vita propria. Per Benjamin invece è proprio al contrario l\u27opera che chiama il critico futuro alla continua rilettura di essa: quanto più significativo è il suo “contenuto di verità” originario tanto più essa potrà offrirsi in maniera proficua ad una sempre rinnovata attualità. Da un lato si vuole in questa sede restringere il discorso generale sull’alterità come soglia critica in cui l’Altro in-giunge eticamente l’Io; e si tratta quindi di focalizzare il rapporto di alterità tra Kunstwerk e Kunstkritik – ossia tra opera d’arte e critica letteraria. Dall’altro lato si intende approfondire una questione squisitamente estetica e però consanguinea all’ingiunzione etica dell’alterità: il problema dell’irrappresentabilità dell’Altro a livello artistico superato dalla rappresentazione velata del Bello da parte dell’Io che si riconosce nell’Altro
Oltre la transizione. Per una filosofia politica dell’anticipazione
I recenti tentativi di produrre una nuova teoria critica della società fannoancora ampio uso delle categorie temporali su cui Reinhart Koselleck avevamodellato il concetto di Neuzeit, riferendosi al tempo storico come ad unagrandezza che cambia relativamente al mutare della coordinazione tra spazio diesperienza e orizzonte di aspettativa. In questo contesto si insiste nel definire lanostra contemporaneità una «tarda modernità», un’epoca in cui l’esperienza delmutamento come processo orientato ad un fine ultimo, ossia la concezione dellastoria come progresso, ha ceduto il passo alla percezione del mutamento comeprocesso privo di direzionalità, subito passivamente da soggetti sempre piùindividualizzati. Nella tarda modernità, l’accelerazione sociale sarebbe divenutauna sorta di coazione impersonale, svuotata di orientamento normativo, che sipresenta come una potenza obiettiva sfuggita al nostro controllo. Essa divora gliimmaginari, le istituzioni e le pratiche delle nostre società, svuota dall\u27interno edisattiva gli orizzonti normativi del progetto della modernità, sottopone gliindividui ad un regime disciplinare del tempo, che ubbidisce all\u27unico imperativo diuna continua accelerazione
La critica come didattica: dissenso e verità. Nove tesi
Esiste ancora la necessità della critica e la questione del lavoro critico continua a comportare anche oggi il rischio intellettuale di “dire la verità”. Perchéesiste la verità, ineludibile pur nel suo essere relativa, parziale e provvisoria (unaverità che riguarda l’etica, l’esistenza, la nostra relazione con il mondo). EdwardSaid, di cui non condivido il metodo “orientalista” ma di cui ammiro lo spirito critico, in Dire la verità. Gli intellettuali e il potere (1995) argomenta coraggiosamente come la questione della verità pertenga alla funzione dell’intellettuale ridefinito nel contesto dei conflitti del mondo globalizzato e della precarietà del suo riconoscimento sociale. A differenza di quanto accade a figure di intrattenitori professionisti che pongono il proprio lavoro al servizio dell’ordine costituito, Said riprende Gramsci e Sartre e identifica la vocazione di dire la verità con la critica al potere, in bilico tra solitudine e allineamento. Qualche decennio prima, Elsa Morante in Pro o contro la bomba atomica (1965) poneva in modo radicale la questione della verità dell’arte in rapporto alla “lotta contro in drago dell’irrealtà”: “nel sistema organizzato della irrealtà, la presenza dello scrittore è sempre uno scandalo”. Elsa Morante considerava la bomba nucleare come il “fiore” della società piccolo-borghese, della pulsione di morte dei ceti medi e la letteratura come “il contrario della disintegrazione”. Nulla di ciò che hanno scritto Said e Morante su realtà e verità mi sembra oggi tramontato