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Il mercato antiquariale nella Venezia di Ruskin. L'arte medievale in Germania
I primi viaggi di Ruskin a Venezia cadono durante la dominazione austriaca, una lunga fase che vede una dispersione di materiali medievali veneziani che sono divenuti oggetto d’interesse per un mercato che risponde a sollecitazioni diverse: privati collezionisti, amatori e turisti stranieri che cercano “souvenir” ma anche committenze elevate finalizzate alla costituzione di musei e luoghi evocativi.
È questo il caso dell’imponente acquisto negli anni Quaranta ( committente Federico Guglielmo di Prussia) di sculture antiche e medievali in Italia che andranno a costituire un importante nucleo per il museo di arte medievale e bizantina dei musei di stato in corso di costruzione. Tra queste si trova un gruppo interessante di opere veneziane acquistate tutte presso un unico commerciante veneziano (Pajaro). Anche il fratello di Federico Gugliemo, Carlo, acquista arte veneziana per ricreare nel castello di Glienicke un chiostro veneziano. Ancora: la Friedenkirche a Potsdam viene ornata da un mosaico acquistato a Murano dalla demolita chiesa di san Cipriano.
Frammenti e opere intere vanno quindi a costituire raccolte destinate al pubblico e alla sua educazione, oppure a impreziosire edifici neomedievali o evocativi. Una spoliazione che va in direzione opposta all’attenzione di Ruskin. L’occhio e la mano di Ruskin ci hanno consegnato documentazione grafica e visiva di un patrimonio in contesto. I suoi scritti sono animati dalla attenzione ad ogni frammento, come testimonianza di un fare che è anche storia.
Delle esportazioni delle opere medievali resta traccia anche nella reazione di veneziani (Seguso in primis) e si può cogliere non solo negli scritti ma nelle azioni successive la crescita di una attenzione e una sensibilità per un patrimonio che verrà sentito come identitario. Dopo l’annessione all’Italia pur non cessando l’azione del mercato e le vendite possiamo riscontrare una dinamica non solo di attenzione e forte impegno nel restauro di monumenti significativi, ma anche la costituzione di musei dove trovano posto i frammenti emersi da restauri e le sculture decontestualizzate in nome di un nuovo spirito e di una attenzione di cui Ruskin è stato attivo promotore e protagonista
Imperatori di Bisanzio
Prima traduzione italiana della Cronografia di Michele Psello, con interventi testuali riportati nell’apparato critico.
First Italian translation of Michael Psellos’ Chronographia, with textual revisions in the critical apparatus
Il titulus di Costantino tra conciliarismo, umanesimo e iconografia
-Nella seconda metà del XV secolo, dopo la definitiva espugnazione turca di Costantinopoli, nel disegno di riaffermazione dell’autorità papale che culminerà nel pontificato di Enea Silvio Piccolomini, rientrò in maniera essenziale una nuova percezione del titulus di Costantino. Il lavorio diplomatico e il progetto strategico del salvataggio occidentale di Bisanzio, nei due decenni successivi alla caduta di Costantinopoli, avevano e avrebbero avuto il preciso scopo di reintegrare nell’orbita d’influenza papale la titolarità ereditaria dei cesari bizantini, trasferita da Costantino in Oriente e mai estinta. La cattedra della sede di Pietro e lo scettro della cristianità orientale si sarebbero dovuti riunire simbolicamente in una ‘Nuova Bisanzio’, che avrebbe avuto la sua base a Roma e la sua testa di ponte a Mistrà.
La portata, la finalità, le implicazioni, l’appassionata coralità di questo estremo tentativo di salvare dai turchi e riannettere all’Occidente il titolo di Costantino fino a qualche anno fa non erano state còlte sino in fondo né dagli studiosi di storia occidentale né da quelli di storia bizantina, per due motivi: perché tutto si svolse nell’angolo cieco tra la visione dell’una e dell’altra, oltre che alla cerniera tra Medioevo e Età Moderna; e inoltre perché quel tentativo risultò perdente, mentre la storia, si sa, è scritta dai vincitori.
Il progetto fallì anche perché perirono l’uno dopo l’altro, in un brevissimo arco di tempo, i suoi principali sostenitori. Ma nei decenni in cui fu perseguito assistiamo a un vero e proprio revival della figura di Costantino e a un’accentuazione del primato simbolico e del portato giuridico del suo titolo, nella riflessione e nell’azione politica degli intellettuali umanisti, che si rispecchiò nelle committenze artistiche del tempo. Proprio Costantino è al centro della Battaglia di Costantino e Massenzio, il primo degli affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo. Lo stesso profilo, la stessa barba appuntita, l’identico copricapo si ritrovano attribuiti da Piero alla figura maschile assisa in trono che all’estrema sinistra della Flagellazione di Urbino apre l’apparentemente enigmatica sequenza dei personaggi del dipinto: la figura simbolica del Pilato neotestamentario, inteso nella sua qualità di rappresentante giuridico del potere romano, che l’opinione prevalente degli studiosi novecenteschi ha identificato con quella storica di Giovanni VIII Paleologo.
Una lunga scia iconografica, che ha la sua espressione più emblematica e nota negli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo e nella sua Flagellazione, ma che è ben più diffusa e diversificata e si estende sino alla fine del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, moltiplicherà in questi decenni l’icona costantiniana nell’arte pittorica, ma anche in quella eminentemente libresca e umanistica della miniatura, e perfino nelle arti minori come la ceramica, conferendo all’immagine di Costantino i concreti tratti dei basileis bizantini del tempo e sottolineando sia l’indiscussa legittimità sia l’inestimabile valore politico del lascito dei cesari della Seconda Roma.
Solo negli anni Settanta del Quattrocento, dopo che la mancata riunificazione ideologico-giuridica della Prima Roma con la Seconda divenne un dato di fatto irrefutabile e insormontabile, il passaggio del titulus di Costantino da un lato ai turchi osmani, dall’altro alla Terza Roma produrrà non solo l’eclissi di Bisanzio nell’autocoscienza politica dell’era moderna, ma anche una metamorfosi nella ricezione della figura storica del fondatore dell’Impero che si era affermata durante il suo revival umanistico
Ritorno a Bisanzio. Il riemergere della Costantinopoli bizantina nello sguardo dei letterati e degli eruditi durante la caduta dell’impero ottomano
Il contributo raccoglie e analizza alcune rilevanti testimonianze di letterati ed eruditi che visitarono Istanbul durante il periodo della caduta dell’impero ottomano, convenzionalmente individuato, nel volume che lo ospita, tra gli antefatti del primo conflitto mondiale e il trattato di Losanna (1912-1923). Si citano, tra le varie fonti, Adieu à l’Orient Express di Paul Morand, Le Voyage d’Orient di Le Corbusier, Une enquête aux pays du Levant di Maurice Barrès, Pera Palace di John Dos Passos. A emergere da queste letture è un preciso Zeitgeist: dopo quasi cinque secoli di tradizione islamica e di occupazione ottomana, Istanbul si manifesta di nuovo come città bizantina nella percezione della sua facies monumentale e urbanistica così come del suo antevita culturale e religioso. L’articolo pone in evidenza le premesse del fenomeno, già attestabile negli scritti e nelle opere di ricerca dei fondatori della bizantinistica accademica francese e tedesca nella seconda metà del XIX secolo, Gustave Schlumberger e Karl Krumbacher, così come in altre testimonianze di letterati dell’epoca: si pensi ad esempio alla significativa descrizione della Karyie Camii, già Katholicon del monastero di San Salvatore in Chora, nei Souvenirs de Rhamazan di Marie Léra
Destroying the Past. Monotheism, Iconoclasm, and the Sacred
Starting from a comparison between the voices of some late antique witnesses, such as Libanius and Eunapius, and the edict issued by Mullah Omar in 2001, the author argues 1) the archicidium – that is, the destruction of statues and temples by extremist religious groups – is not new to history; 2) the attack on the global cultural heritage that ISIL is carrying out today cannot be attributed to an iconoclastic matrix, that is, a fundamental hostility to the image intrinsic to the Islamic religion and theology. The conclusion is that the archicidium has nothing to do with iconoclasm, but with the vandalising, brutal intention to eliminate the symbols of a past political order
Storia utile all’anima, dalle piú remote plaghe della Terra degli Etiopi – detta anche «degli Indiani» – recata alla Città Santa da Giovanni, monaco del monastero di San Saba. Parte prima, in: Storia di Barlaam e Ioasaf, a cura di S. Ronchey, P. Cesaretti
Capofila di tutte le storie cristianizzate del Buddha, questo testo bizantino degli anni intorno al Mille ha una genesi affascinante tra il Caucaso e il Monte Athos, in un intreccio di lingue, culture e religioni diverse.
La Storia di Barlaam e Ioasaf racconta di un principe indiano che, grazie agli insegnamenti di un anacoreta, fugge dal palazzo dove il padre l'ha rinchiuso per proteggerlo dai mali del mondo, abbandona il destino regale e avvia il suo percorso mistico-eremitico. Che la storia ricalcasse quella del Buddha era stato realizzato già dagli studiosi di fine Ottocento, ma la matassa dei passaggi e delle mediazioni è stata dipanata solo in anni recenti, anche grazie all'edizione critica pubblicata da Robert Volk nel 2009. Basandosi sul suo testo e sui suoi apparati, gli autori consegnano ai lettori una puntuale revisione della traduzione e una ristrutturazione delle note e degli indici, che completano l'informazione aggiornata sull'insieme dell'opera fornita nel saggio introduttivo. Tutto questo rinnova profondamente l'edizione firmata dai due studiosi nel 1980. Si possono cosí apprezzare appieno per la prima volta sia le qualità narrative del testo sia la ricchezza allusivo-sapienziale delle parabole incastonate nel racconto, che hanno affascinato e influenzato molti scrittori nel corso dei secoli, da Iacopo da Varazze a Boccaccio, da Shakespeare a Tolstoj
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