10 research outputs found

    Antiproliferative oxime derivatives that inhibit glucose transporter 1 (GLUT1) in cancer cells

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    The Warburg effect, consisting in alterations of the glucose metabolism in cancer cells, where glucose mostly undergoes glycolysis with production of lactate, is currently being considered as one of the most intriguing hallmarks of cancer [1]. Therefore, the discovery of new agents able to block the glycolytic processes in tumor cells holds promise for developing relatively nontoxic anticancer treatments [2]. In terms of energy (ATP) production, glycolysis is dramatically less efficient than oxidative phosphorylation (OXPHOS). In fact, most normal cells rely on OXPHOS for glucose degradation, since they are generally well-oxygenated. On the contrary, invasive tumor tissues are often exposed to more-or-less transient hypoxia, which cannot guarantee the proper functioning of OXPHOS. Under these hypoxic conditions glycolysis leading to lactate production is mainly preferred, since it does not depend on oxygen availability. However, due to the lower efficiency of the glycolytic process, cancer cells commonly show a remarkably high glucose uptake, which is supported by the overexpression of the glucose transporters (GLUTs). GLUT1 is one of the most commonly transporters that are overexpressed by cancer cells and, therefore, represent a potential target for selectively hitting them [3], although only a very limited number of GLUT1-inhibitors have been reported so far [4]. On the basis of an analysis of the pharmacophoric features displayed by some previously reported GLUT1-inhibitors, we have identified a series of oxime derivatives [5] as potentially active on this transporter. A preliminary screening of these compounds in H1299 lung cancer cells demonstrated that some of them are able to effectively counteract glucose uptake and cell growth, displaying IC50 values in the low micromolar range. We have then developed a new computational model of GLUT1, which provided us with valuable clues about the possible binding site and the most important interactions occurring with some representative oxime derivatives and GLUT1. These indications may prove to be very valuable for the future development of novel potent and selective GLUT1-inhibitors. References: [1] Hanahan, D.; Weinberg, R. A. Cell 2011, 144, 646-674. [2] Granchi, C.; Minutolo, F. ChemMedChem 2012, 7, 1318-1350. [3] Rastogi, S.; Banerjee, S.; Chellappan, S.; Simon, G. R. Cancer Lett. 2007, 257, 244-251. [4] Liu, Y.; Cao, Y.; Zhang, W.; Bergmeier, S.; Qian, Y.; Akbar, H.; Colvin, R.; Ding, J.; Tong, L.; Wu, S.; Hines, J.; Chen, X. Mol. Cancer Ther. 2012, 11, 1672-1682, and references therein. [5] Minutolo, F.; Bertini, S.; Granchi, C.; Marchitiello, T.; Prota, G.; Rapposelli, S.; Tuccinardi, T.; Martinelli, A.; Gunther, J. R.; Carlson, K. E.; Katzenellenbogen, J. A.; Macchia, M. J. Med. Chem. 2009, 52, 858-867

    Deficit dell'ormone della crescita in fase di transizione. Studio dell'assetto metabolico e della densità minerale ossea.

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    Premessa. L’ormone della crescita (GH) svolge un ruolo centrale nel processo di accrescimento staturale del bambino. Questa sua azione, necessaria per il raggiungimento della statura definitiva, è accompagnata anche da altre azioni di rilievo che modificano in maniera sostanziale l’assetto endocrino-metabolico del soggetto in età evolutiva. Il deficit di GH (GHD) non deve perciò essere inteso solo come un’auxopatia, quanto piuttosto come un sindrome complessa, caratterizzata da specifiche alterazioni biochimiche e metaboliche, quali l’alterazione della composizione corporea e del profilo lipidico. È sulla base di tali evidenze che molti studi hanno focalizzato la loro attenzione sui pazienti affetti da GHD durante la fase di transizione. Questa fase della vita va dal completamento dello sviluppo auxologico, con il raggiungimento della statura finale, all’età del giovane adulto; ha quindi una durata di 6-7 anni e include pazienti tra i 16 ed 25 anni di età. Durante la fase di transizione si verificano i cambiamenti dell’organismo alla base dello sviluppo e della maturazione del soggetto, sino alla stabilizzazione dei vari processi maturativi, endocrini e metabolici, ed al raggiungimento della struttura corporea dell’adulto. Per quanto riguarda il metabolismo osseo, nel corso della fase di transizione la densità minerale ossea (Bone Mineral Density, BMD) si modifica significativamente, aumentando fino al raggiungimento del picco di massa ossea, che si realizza 5-7 anni dopo la chiusura delle cartilagini epifisarie. Il GH svolge un ruolo indispensabile in questo processo. Infatti nei pazienti con deficit dell’ormone della crescita che dopo il retesting hanno interrotto la terapia, la BMD continua a crescere ma ha valori inferiori rispetto ai controlli sani; inoltre il picco di massa ossea che viene raggiunto è ridotto e ritardato, ed è seguito da un decremento più rapido dei valori della BMD. In questi pazienti è descritto un significativo aumento del rischio di fratture in età adulta. Al contrario, il trattamento nei pazienti con GHD dopo il raggiungimento della statura finale favorisce il completamento del processo di maturazione della massa ossea fino al raggiungimento del picco e consente di mantenere una adeguata BMD. L’ormone della crescita durante la fase di transizione è fondamentale anche per il raggiungimento di un’adeguata composizione corporea. Recenti studi dimostrano infatti che i pazienti con GHD in fase di transizione che non effettuano la terapia sostitutiva presentano una riduzione della massa magra ed un aumento della massa grassa. La prosecuzione o la reintroduzione della terapia con GH in questi pazienti modifica significativamente la composizione corporea, determinando un’inversione di questa tendenza. Infine, il GH è in grado di normalizzare il profilo di rischio cardiovascolare in quanto il deficit di GH determina, anche nei soggetti in fase di transizione, l’aumento del colesterolo totale, del colesterolo LDL, del rapporto tra colesterolo totale ed HDL e della apolipoproteina B, oltre ad un aumento dei marcatori di flogosi ed alla riduzione dei livelli di adiponectina. Alterazioni morfologiche e funzionali cardiache nonché della funzione vascolare sono inoltre già presenti, seppur in forma lieve, nei pazienti GHD in fase di transizione e sono reversibili dopo alcuni mesi di terapia con GH. Quanto osservato suggerisce che è opportuno continuare il trattamento con GH nei pazienti con GHD in fase di transizione. Tuttavia, poiché non tutti i bambini ai quali è stato diagnosticato il GHD conservano il deficit anche dopo il raggiungimento della statura finale, è indispensabile distinguere tra i soggetti GH sufficienti da coloro che conservano il deficit e necessitano di proseguire il trattamento. Per questo motivo, una volta raggiunta la statura finale si sospende la terapia con GH per un periodo di 1-3 mesi e quindi si sottopone i pazienti ad una rivalutazione dell’asse GH-IGF1. Il retesting si avvale della misurazione combinata dei livelli di IGF1 e del picco di GH stimolato con un test dinamico. Di fronte alla riduzione di entrambi i parametri si conferma la diagnosi di GHD persistente, mentre se entrambi risultano normali il paziente è definito GH sufficiente; nel caso in cui i due valori siano discordanti è necessario mantenere il paziente in follow-up in attesa di definire la diagnosi. Fra i test dinamici disponibili il gold-standard è oggi considerato il test di tolleranza insulinica (ITT), ma anche il test al GHRH potenziato con arginina (GHRH+ARG) può essere utilizzato nei soggetti nei quali è controindicato il primo. I valori soglia sono stati oggetto di disquisizione ma, ad oggi, è stato dimostrato che un picco di GH inferiore a 6,1 ng/ml, nel caso si utilizzi il test ITT, ed inferiore a 19 ng/ml, nel caso si utilizzi il test GHRH+ARG, è da considerarsi patologico nei soggetti valutati durante la fase di transizione. Nei soggetti risultati GHD al retesting è quindi corretto proseguire il trattamento terapeutico e monitorare la risposta effettuando, ogni sei mesi, il dosaggio di IGF1, la cui secrezione e indotta dal GH. Infatti, dal momento che l'accrescimento non può più essere considerato la fisiologica risposta alla terapia, i livelli di IGF1, proporzionali ai livelli di GH, restano il principale parametro di efficacia della terapia. Scopi dello studio. Nella presente studio sono stati valutati i soggetti che, a partire dall'anno 2009, hanno effettuato il retesting nella Sezione di Endocrinologia Pediatrica della Clinica Pediatrica dell’Università di Pisa. In seguito i soggetti rivelatisi GH sufficienti hanno interrotto la terapia mentre i soggetti in cui è stato confermato il GHD hanno proseguito il trattamento. Ad un anno di distanza, è stata effettuata una rivalutazione e un confronto del quadro endocrino-metabolico dei due gruppi. Con questo lavoro vogliamo valutare gli effetti della terapia con ormone della crescita sui processi di maturazione dell’organismo durante la fase di transizione. Risultati. Lo studio ha valutato una popolazione di 39 soggetti (28 maschi, 11 femmine) di età compresa tra i 15,5 e i 18,7 anni (età media di 17,6 anni) una volta raggiunta la statura finale. È stato evidenziato che, al momento del retesting, la BMD, l'assetto lipidico, i parametri del metabolismo glucidico e fosfo-calcico non si discostavano dalla media della popolazione sana e restavano entro i range di normalità. I livelli di IGF1 erano significativamente ridotti nei soggetti affetti da GHD. Dopo un anno di follow-up non sono state individuate modificazioni significative dei suddetti parametri, né nella popolazione con GHD persistente né in quella GH sufficiente, rimaste sostanzialmente sovrapponibili. Le densitometrie ossee effettuate al momento del retesting non mostravano differenze significative tra i due gruppi di soggetti ed anche dopo un anno di follow-up sono risultate equivalenti. Una moderata tendenza all’aumento della BMD è stata riscontrata in entrambi i gruppi di pazienti. La densità minerale ossea, perciò, sia nei soggetti GH sufficienti che nei soggetti con GHD persistente che assumono la terapia, tende a incrementare verso il picco di massa ossea. Nel gruppo di pazienti GHD che hanno proseguito la terapia sostitutiva durante la fase di transizione si sono riscontrati moderati cambiamenti favorevoli nell’ambito dell’assetto lipidico e della composizione corporea. Seppur non statisticamente significative, queste tendenze si muovono nella direzione mostrata dagli studi sul trattamento con GH nei pazienti GHD in fase di transizione. Conclusioni. Questo studio ha dimostrato che la terapia sostitutiva con ormone della crescita nel corso della fase di transizione permette al soggetto con deficit di continuare il processo di sviluppo, caratteristico di questa fase, in modo sovrapponibile al soggetto sano. L’interruzione della terapia nei pazienti che hanno confermato il GHD al retesting deve essere assolutamente evitata in quanto, come dimostrato negli studi descritti, altera il processo di maturazione che si realizza durante la fase di transizione, compromettendo il raggiungimento di una struttura corporea adeguata e ponendo le basi per un profilo metabolico di aumentato rischio cardiovascolare. Al contrario, la prosecuzione del trattamento, senza alcuna interruzione, permette il corretto processo di sviluppo che porta all’età adulta. È quindi indispensabile, ai fini di un idoneo trattamento, che i soggetti con deficit di GH, una volta raggiunta la statura finale, siano sottoposti a rivalutazione dopo un breve periodo di sospensione della terapia e che coloro che mostrino al retesting un ridotto picco di GH proseguano senza alcuna interruzione la terapia sostitutiva

    Diabete mellito di tipo 2 nel grande anziano con frattura di femore da fragilità: valore prognostico del controllo glicometabolico e dell'approccio terapeutico.

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    La popolazione anziana costituisce una grossa fetta della popolazione italiana ed è destinata a crescere nel tempo. Il diabete mellito di tipo 2 (DM2) interessa quasi un quinto dei soggetti > 65 anni di età ed è un noto fattore di rischio per osteoporosi e sviluppo di fratture da fragilità, fra cui la frattura di femore. Il paziente diabetico tende inoltre a cadere più spesso, sia per le complicanze legate alla malattia (neuropatie, retinopatia) sia in relazione alle ipoglicemie secondarie a trattamento. La frattura di femore rappresenta un fattore prognostico negativo per l’anziano, soprattutto se diabetico. In questo panorama si fa strada la necessità di un approccio ortogeriatrico e multidisciplinare che guardi al paziente diabetico con frattura di femore nella sua globalità. Scopo dello studio Il progetto Ortogeriatria nasce dalla collaborazione tra U.O. Geriatria Universitaria e U.O. Traumatologia Universitaria dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, composta dalla U.O. Ortopedia e Traumatologia Universitaria. Scopo del presente studio è stato di valutare la prevalenza di diabete mellito di tipo 2 (DM2) in una coorte di paziente anziani fratturati di femore e di verificare la presenza di possibili correlazioni fra la presenza di questa malattia e valutazione multidimensionale geriatrica, parametri ematochimici, outcome clinico e recupero funzionale, anche in termini di controllo glico-metabolico e tipologia di terapia antidiabetica. Questa analisi favorirà una migliore pianificazione dell’iter terapeutico interdisciplinare dei pazienti fragili con frattura di femore. In particolare, consentirà di scegliere il trattamento medico più appropriato nel paziente diabetico fratturato e favorirà l’inquadramento clinico per l’accesso alle cure riabilitative oltre che la pianificazione di un adeguato follow up. Tutto ciò, anche in base alle precedenti esperienze di ortogeriatria già pubblicate, potrebbe tradursi in una migliore qualità di vita con riduzione della mortalità e del numero di recidive oltre che in una riduzione complessiva della disabilità funzionale residua e dei costi socio-economici associati. Materiali e metodi Il presente studio osservazionale è stato condotto in maniera longitudinale e i dati sono stati raccolti prospetticamente. Sono stati arruolati 1319 pazienti con età ≥65 anni ricoverati in regime di urgenza presso la U.O. Ortopedia e Traumatologia Universitaria dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana (A.O.U.P.) con diagnosi di frattura di femore, seguiti durante la degenza all’interno del percorso ortogeriatrico da aprile 2013 a Dicembre 2018 ed inseriti all’interno del progetto Ortogeriatria della U.O. Geriatria Universitaria della A.O.U.P. Di questa popolazione è stato quindi analizzato il sottogruppo dei pazienti affetti da DM2, costituito da 277 soggetti. I pazienti sono stati arruolati per tipologia di frattura comprendendo le sole fratture di femore ed escludendo tutti gli altri distretti corporei. Nella fase pre-operatoria tutti i pazienti sono stati sottoposti a valutazione clinica (anamnesi, esame obiettivo e stabilizzazione emodinamica) ed a valutazione multidimensionale geriatrica (VMDG), comprensiva di valutazione cognitiva tramite Short Portable Mental Status Questionnaire (SPMSQ), valutazione del grado di autonomia tramite Activities of Daily Living ed Instrumental Activities of Daily Living (ADL e IADL), controllo dello stato cognitivo tramite Confusion Assessment Method (CAM) pre- e post-operatorio per valutare l’eventuale insorgenza di delirium. Si è proceduto ad effettuare il controllo e l’ottimizzazione della terapia domiciliare in merito alle principali patologie croniche dell’anziano in accordo con le linee guida internazionali, suddividendo in particolare i pazienti diabetici in classi secondo la terapia antidiabetica assunta a domicilio. Di tutti i pazienti sono stati raccolti all’ingresso i seguenti dati: nome, sesso, età, periodo di accesso, anamnesi patologica prossima e remota, terapia domiciliare al momento del ricovero con numero e tipo di farmaci assunti, numero e tipo di comorbidità, anamnesi positiva per precedenti episodi di fratture. Al fine di standardizzare le comorbidità della popolazione è stato utilizzato il Cumulative Illness Rating Scale (CIRS). Sono stati, inoltre, inseriti i dati relativi all’andamento del ricovero: motivo di accesso al PS, numero di fratture al momento dell’accesso, sede di frattura, eventuale coesistenza di un trauma cranico, intervallo di tempo trascorso tra l’accesso in PS e l’intervento, durata della degenza, posizionamento e durata della permanenza del catetere vescicale, indice di massa corporea espresso in BMI (kg/m2), parametri vitali (pressione arteriosa espressa in mmHg e frequenza cardiaca espressa in battiti per minuto) e parametri bioumorali all’ingresso ed in dimissione. Sono state registrate, ove comparse, le complicanze peri-operatorie, in particolar modo il delirium, la comparsa di anemizzazione e l’eventuale supporto emotrasfusionale. È stata infine inserita la destinazione del paziente alla dimissione. Il follow up con intervista telefonica è stato eseguito a 6-8 mesi ed è stata esplorata, previo consenso informato telefonico, l’autonomia del soggetto in base alla deambulazione (da autonoma senza ausili fino all’allettamento), il grado di capacità funzionale domestica tramite ADL e IADL, l’aderenza alla riabilitazione. Nel corso del follow up è stato eseguito periodico censimento dei vivi e dei deceduti, ultimo a Giugno 2019, mediante programma anagrafico GSA. L’analisi statistica è stata condotta utilizzando il software IBM SPSS Statistic (IBM SPSS Statistic version 20.0 Ink IBM Corporation and itslicensor 1989-2011). I dati con distribuzione parametrica sono stati espressi come media ±DS. Le relazioni tra le diverse variabili continue sono state valutate con il t-test per campioni indipendenti, le variabili categoriche con il test chi-quadro. L’analisi della sopravvivenza in termini di Overall Survival è stata imposta tramite il metodo attuariale di Kaplan-Meier sulla base dei dati prospettici raccolti, confrontando le curve di sopravvivenza tramite il log rank test. I dati sono stati valutati tramite regressione logistica e le covariate sono state valutate sia in modalità univariata che multivariata. Risultati Nello studio sono stati arruolati 1319 pazienti con fratture di femore trattate chirurgicamente. La popolazione in esame era costituita per il 75.9% da donne e per il 24.1% da uomini, con età media globale (±DS) di 83.3 ± 7.5 anni. I pazienti avevano diagnosi di diabete mellito di tipo 2 nel 21% dei casi (277 pazienti, di cui 198 donne e 79 uomini). Nel 95.9 % dei casi la causa dell’evento era stata una caduta accidentale, nel restante 4.1% un evento sincopale. Le fratture sono state trattate mediante intervento chirurgico di protesi nel 30% dei casi e mediante osteosintesi nel 70%, con degenza media di 5.8 giorni (1-30 giorni). Il CIRS medio calcolato è stato di (±DS) di 1.7 ± 0.5. In termini di disabilità, il 31.4% è risultato avere ADL ≤ 4 prima della frattura, mentre un 70.5% aveva un IADL ≤ 6. Mediante questionario SPMSQ è stato descritto un decadimento cognitivo ( ≥ 3 errori) nel 35.2% dei pazienti esaminati. La prevalenza di delirium ipercinetico durante la degenza (considerando sia il pre- che il post-operatorio) è stata del 10.7%. La funzionalità renale in termini di filtrato glomerulare (Chronic Kidney Disease Epidemiology Collaboration, CKD-EPI) è risultata in media all’ingresso 68.6 mL/min/1.73 m2; i valori di albuminemia erano in media di 3.6 g/dl nel pre-operatorio e di 2.9 g/dl nel post-operatorio, mentre i livelli medi di emoglobina registrati in PS sono stati di 11.5 g/dl, con una perdita media post-operatoria di 2.3 g/dl. I pazienti in esame erano non diabetici nel 79% dei casi (1042 pazienti); di questi 803 erano donne e 239 uomini. L’età media globale (±DS) è risultata di 83.6 ± 7.7 anni. La valutazione multidimensionale geriatrica (VMDG) ha mostrato valori medi (±DS) di CIRS paria 1.7 ±0.3, BADL 4.2 ±2.1 (30.4% BADL 64 mmol/mol) ed il 15.7% un controllo troppo stretto (HbA1c 64 mmol/mol. Conclusioni La nostra casistica ha evidenziato nella popolazione in esame una prevalenza di DM2 pari al 21%, di poco superiore rispetto alla popolazione generale italiana sopra 65 anni di età (pari al 18.8%). La elevata prevalenza di diabete mellito di tipo 2 riscontrata in questo gruppo di pazienti anziani con frattura di femore può certamente essere messa in relazione all’aumentato rischio fratturativo che associa tale patologia sistemica alle fratture da fragilità ed in particolare a quella di femore. Tuttavia nella popolazione in esame il numero di pregresse fratture non differiva tra diabetici e non diabetici; tali risultati, parzialmente in disaccordo con quanto riportato in letteratura, potrebbero dipendere dalle caratteristiche generali della popolazione in esame, caratterizzata mediamente da una buona riserva funzionale e cognitiva. Il gruppo di anziani diabetici con frattura di femore ha mostrato significative differenze con il gruppo dei non diabetici in termini di maggiori comorbidità e peggiore funzionalità renale, come ci si poteva aspettare in ragione della patologia diabetica, mentre non si sono riscontrate differenze in termini di funzionalità residue (BADL ed IADL) e stato cognitivo (SPMSQ). Inoltre si è confermata la maggiore durata di degenza ospedaliera del paziente diabetico. I pazienti in terapia con farmaci ipoglicemizzanti (insulina, sulfaniluree, glinidi), pari al 35.2% dei soggetti diabetici esaminati, presentavano un numero maggiore di traumi cranici e fratture multiple associate alla caduta, a sottolineare la maggiore severità delle cadute ipoglicemia-correlate. Peraltro, l’utilizzo di insulina e sulfaniluree si associava a peggiori capacità cognitive, in termini di numero di errori allo SPMSQ, con una differenza statisticamente significativa rispetto ai pazienti in terapia dietetica o in terapia antidiabetica non ipoglicemizzante, confermando la nota associazione per il paziente diabetico tra decadimento cognitivo ed ipoglicemia. Il diabete mellito di tipo 2 si è confermato fattore prognostico negativo di sopravvivenza nel panziente anziano con frattura di femore, indipendentemente dal sesso, dal grado di comorbidità e dall’utilizzo di terapie ipoglicemizzanti. Il soggetto anziano fratturato di femore è risultato avere, nel nostro studio, un rischio di morte del 42% superiore rispetto ad un coetaneo non diabetico, dato in linea con altri studi presenti in letteratura. Da studi precedenti emerge come l’aumento di mortalità successivo alla frattura di femore nell’anziano, anche diabetico, dipenda nel primo anno da complicanze post-operatorie, in primis infettive. Studi recenti hanno confermato che la differenza assoluta di mortalità tra diabetici e non diabetici aumenta anche negli anni successivi alla frattura a supporto del fatto che la mortalità in eccesso per i pazienti diabetici con frattura di femore non è dovuta esclusivamente all'aumento della mortalità nella fase acuta post-operatoria. Questo andamento della mortalità è stato osservato anche nella nostra casistica, dove persiste fino ad almeno 60 mesi dalla frattura. Le cause di questo andamento della curva di sopravvivenza nel diabetico anziano fratturato di femore non sono ancora del tutto chiare; non si può escludere che il diabete mellito possa contribuire nel rendere l’anziano più fragile e quindi meno capace di rispondere agli eventi acuti che compaiono nell’età avanzata, tra i quali la frattura di femore è sicuramente uno dei più i temibili. Inoltre, i livelli di HbA1c nel nostro studio non impattano significativamente sulla sopravvivenza, dato in accordo con studi su popolazioni analoghe presenti in letteratura. Si sottolinea tuttavia che i pazienti anziani in esame che avevano un controllo glico-metabolico ottimale (HbA1c 42-52 mmol/mol ) o soddisfacente per età (HbA1c 53-63 mmol/mol) mostravano un maggiore sopravvivenza nei primi 24 mesi dalla frattura rispetto ai pazienti con un controllo glicemico inadeguato (HbA1c ≥ 64 mmol/mol) o troppo rigido (HbA1c ≤ 42 mmol/mol). Questo conferma la necessità di mantenere un adeguato controllo glicemico nel paziente anziano diabetico, prediligendo la personalizzazione del trattamento ed evitando un eccessivo controllo glico-metabolico. Infine a 6-8 mesi dall’evento la maggioranza dei pazienti diabetici e non diabetici, pur aderendo a percorsi riabilitativi, non aveva recuperato la deambulazione autonoma con una perdita in funzioni di base, senza differenze significative tra i due gruppi, a confermare il ruolo della frattura di femore nella perdita della capacità deambulatoria, specie dell’anziano. Si può pertanto ritenere che la gravità d’impatto della frattura di femore sull’anziano imponga una attenta valutazione preventiva in termini di rischio fratturativo e di cadute, specie nel paziente diabetico. Inoltre il percorso ortogeriatrico, notoriamente associato ad un miglioramento della sopravvivenza nei pazienti anziani fratturati, deve essere considerato non solo come valido strumento di valutazione pre- e post-operatoria nel setting traumatologico ma anche come metodo di valutazione clinica sul medio-lungo periodo dopo una frattura da fragilità attraverso un periodico controllo dei pazienti a rischio

    Estrogen receptor ligands: a patent review update

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    Introduction: The role of estrogens is mostly mediated by two nuclear receptors (ERα and ERβ) and a membrane-associated G-protein (GPR30 or GPER), and it is not limited to reproduction, but it extends to the skeletal, cardiovascular and central nervous systems. Various pathologies such as cancer, inflammatory, neurodegenerative and metabolic diseases are often associated to dysfunctions of the estrogenic system. Therapeutic interventions by agents that affect the estrogenic signaling pathway might be useful in the treatment of many dissimilar diseases. Areas covered: The massive chemodiversity of ER-ligands, limited to patented small molecules, is herein reviewed. The reported compounds are classified on the basis of their chemical structures. Nonsteroidal derivatives, which mostly consist in diphenolic compounds, are further segregated into chemical classes based on their central scaffold. Expert opinion: Estrogens have been used for almost a century and their earlier applications have concerned interventions in the female reproductive functions, as well as the treatment of some estrogen-dependent cancers and osteoporosis. Since the discovery of ERβ in 1996 the patent literature has started to pay a progressively increasing attention to this newer receptor subtype, which holds promise as a target for new indications, most of which still need to be clinically validated

    Oxime-based inhibitors of glucose transporter 1 displaying antiproliferative effects in cancer cells

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    An analysis of the main pharmacophoric features present in the still limited number of inhibitors of glucose transporter GLUT1 led to the identification of new oxime-based inhibitors, which proved to be able to efficiently hinder glucose uptake and cell growth in H1299 lung cancer cells. The most important interactions of a representative inhibitor were indicated by a novel computational model of GLUT1, which was purposely developed to explain these results and to provide useful indications for the design and the development of new and more efficient GLUT1 inhibitors

    Highly Selective Salicylketoxime-Based Estrogen Receptor beta Agonists Display Antiproliferative Activities in a Glioma Model

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    Estrogen receptor beta (ER beta) selective agonists are considered potential therapeutic agents for a variety of pathological conditions, including several types of cancer. Their development is particularly challenging, since differences in the ligand binding cavities of the two ER subtypes a and beta are minimal. We have carried out a rational design of new salicylketoxime derivatives which display unprecedentedly high levels of ER beta selectivity for this class of compounds, both in binding affinity and in cell-based functional assays. An endogenous gene expression assay was used to further characterize the pharmacological action of these compounds. Finally, these ER beta-selective agonists were found to inhibit proliferation of a glioma cell line in vitro. Most importantly, one of these compounds also proved to be active in an in vivo xenograft model of human glioma, thus demonstrating the high potential of this type of compounds against this devastating disease

    The relationship between cardiac injury, inflammation and coagulation in predicting COVID-19 outcome

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    High sensitivity troponin T (hsTnT) is a strong predictor of adverse outcome during SARS-CoV-2 infection. However, its determinants remain partially unknown. We aimed to assess the relationship between severity of inflammatory response/coagulation abnormalities and hsTnT in Coronavirus Disease 2019 (COVID-19). We then explored the relevance of these pathways in defining mortality and complications risk and the potential effects of the treatments to attenuate such risk. In this single-center, prospective, observational study we enrolled 266 consecutive patients hospitalized for SARS-CoV-2 pneumonia. Primary endpoint was in-hospital COVID-19 mortality. hsTnT, even after adjustment for confounders, was associated with mortality. D-dimer and CRP presented stronger associations with hsTnT than PaO2. Changes of hsTnT, D-dimer and CRP were related; but only D-dimer was associated with mortality. Moreover, low molecular weight heparin showed attenuation of the mortality in the whole population, particularly in subjects with higher hsTnT. D-dimer possessed a strong relationship with hsTnT and mortality. Anticoagulation treatment showed greater benefits with regard to mortality. These findings suggest a major role of SARS-CoV-2 coagulopathy in hsTnT elevation and its related mortality in COVID-19. A better understanding of the mechanisms related to COVID-19 might pave the way to therapy tailoring in these high-risk individuals

    Hyperglycemia at hospital admission is associated with severity of the prognosis in patients hospitalized for COVID-19: The pisa COVID-19 study

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    OBJECTIVE To explore whether at-admission hyperglycemia is associated with worse outcomes in patients hospitalized for coronavirus disease 2019 (COVID-19). RESEARCH DESIGN AND METHODS Hospitalized COVID-19 patients (N 5 271) were subdivided based on at-admission glycemic status: 1) glucose levels <7.78 mmol/L (NG) (N 5 149 [55.0%]; median glucose5.99mmol/L[range5.38–6.72]),2)known diabetesmellitus (DM)(N5 56[20.7%]; 9.18 mmol/L [7.67–12.71]), and 3) no diabetes and glucose levels ≥7.78 mmol/L (HG) (N 5 66 [24.3%]; 8.57 mmol/L [8.18–10.47]). RESULTS Neutrophils were higher and lymphocytes and PaO2/FiO2 lower in HG than in DM and NG patients.DMandHG patients hadhigherD-dimer andworseinflammatoryprofile. Mortality was greater in HG (39.4% vs. 16.8%; unadjusted hazard ratio [HR] 2.20, 95% CI1.27–3.81,P50.005)thaninNG(16.8%)andmarginallysoinDM(28.6%;1.73,0.92– 3.25, P 5 0.086) patients. Upon multiple adjustments, only HG remained an independent predictor (HR 1.80, 95% CI 1.03–3.15, P 5 0.04). After stratification by quintile of glucose levels, mortality was higher in quintile 4 (Q4) (3.57, 1.46–8.76, P 5 0.005) and marginally in Q5 (29.6%) (2.32, 0.91–5.96, P 5 0.079) vs. Q1. CONCLUSIONS Hyperglycemia is an independent factor associated with severe prognosis in people hospitalized for COVID-19

    Predictors of hospital-acquired bacterial and fungal superinfections in COVID-19: a prospective observational study

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    Background: Bacterial and fungal superinfections may complicate the course of hospitalized patients with COVID-19. Objectives: To identify predictors of superinfections in COVID-19. Methods: Prospective, observational study including patients with COVID-19 consecutively admitted to the University Hospital of Pisa, Italy, between 4 March and 30 April 2020. Clinical data and outcomes were registered. Superinfection was defined as a bacterial or fungal infection that occurred 48 h after hospital admission. Amultivariate analysis was performed to identify factors independently associated with superinfections. Results: Overall, 315 patients with COVID-19 were hospitalized and 109 episodes of superinfections were documented in 69 (21.9%) patients. The median time from admission to superinfection was 19 days (range 11–29.75). Superinfections were caused by Enterobacterales (44.9%), non-fermenting Gram-negative bacilli (15.6%), Gram-positive bacteria (15.6%) and fungi (5.5%). Polymicrobial infections accounted for 18.3%. Predictors of superinfections were: intestinal colonization by carbapenem-resistant Enterobacterales (OR 16.03, 95% CI 6.5–39.5, P < 0.001); invasive mechanical ventilation (OR 5.6, 95% CI 2.4–13.1, P < 0.001); immunomodulatory agents (tocilizumab/baricitinib) (OR 5.09, 95% CI 2.2–11.8, P < 0.001); C-reactive protein on admission >7 mg/dl (OR 3.59, 95% CI 1.7–7.7, P = 0.001); and previous treatment with piperacillin/tazobactam (OR 2.85, 95% CI 1.1–7.2, P = 0.028). Length of hospital stay was longer in patients who developed superinfections ompared with those who did not (30 versus 11 days, P < 0.001), while mortality rates were similar (18.8% versus 23.2%, P = 0.445). Conclusions: The risk of bacterial and fungal superinfections in COVID-19 is consistent. Patients who need empiric broad-spectrum antibiotics and immunomodulant drugs should be carefully selected. Infection control rules must be reinforced
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