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    Analisi del registro delle miocarditi di Trieste: caratterizzazione virologico molecolare e corrispettivi clinici

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    2008/2009La miocardite è definita come un’infiammazione del miocardio, diagnosticata sulla base di una serie di criteri istologici, immunologici ed immunoistochimici. Nonostante la definizione, piuttosto chiara, ed i recenti progressi delle indagini molecolari ed immunoistochimiche, la storia naturale, la classificazione, la diagnosi ed il trattamento delle miocarditi continuano a creare forti controversie. L’introduzione della biopsia endomiocardica e di tecniche molecolari ha sicuramente contribuito a definire meglio le basi fisio-patologiche ed individuare gli aspetti istologici ed immunoistochimici espressione del processo infiammatorio ed autoimmune, che, a lungo termine, può condurre a cardiomiopatia dilatativa. L’evoluzione della biologia molecolare ha portato allo studio di parametri più sofisticati rispetto a quelli classici clinici e strumentali, anche nell’individuazione di fattori prognostici a medio e lungo termine. L’ ipotesi di inquadrare la persistenza del genoma virale tra i possibili criteri prognostici, legati ad un outcome avverso, rimanda, di fatto, alla necessità di capire al meglio la patogenesi dell’infezione virale. Infatti non risulta ancora chiaro in che modo la persistenza di genoma virale possa influire sulla funzione ventricolare: il genoma virale potrebbe essere causa di un’alterata espressione genica nei miocardiociti, e/o dell’attivazione di processi immunomediati. La terminologia “persistenza virale” è spesso utilizzata per indicare la presenza di sequenze di nucleotidi virali, ma è importante effettuare una distinzione tra RNA virale e virus infettante, dal momento che le due cose non sono equivalenti. Come strumento di stratificazione prognostica, inoltre, l’analisi genomica di campioni bioptici, tecnica innovativa ed in evoluzione, ha fornito fino ad oggi informazioni contraddittorie. I vari dati sulla persistenza di genoma virale devono essere, quindi, considerati con cautela, dal momento che il ruolo patogenetico della presenza di virus, latente o in replicazione attiva, non si esaurisce con la sua semplice individuazione. La biopsia endomiocardica rimane il gold-standard nella diagnosi di miocardite che permette, anche se in maniera non sistematica, di poter giungere ad una diagnosi di “certezza” della malattia, quando questa viene sospettata. Ovviamente le informazioni derivabili dai campioni di tessuto miocardico aumentano quanto più numerose sono le metodiche di indagine applicate. Alle tecniche istologiche tradizionali attualmente vengono affiancate molteplici tecniche immunoistochimiche (condotte con anticorpi specifici), ultrastrutturali e di biologia molecolare, che consentono una più approfondita analisi dei campioni bioptici. In questo modo è possibile basare la diagnosi di miocardite non solo sull’istologia, ma anche sulla biologia molecolare. Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per la dimostrazione di persistenza del genoma virale nei cardiomiociti di pazienti affetti da “cardiomiopatia infiammatoria”. Nonostante diversi studi abbiano dimostrato che la persistenza di virus in replicazione attiva si associ ad una maggior mortalità, l’utilità prognostica e la ricaduta pratica di queste indagini risulta ancora essere oggetto di discussione. Scopo della tesi. Scopo di questa tesi è stato quello di descrivere le caratteristiche clinico-strumentali di una popolazione di miocarditi attive biopticamente accertate, e di esaminare l’impatto della modalità di presentazione clinica sulla prognosi a lungo termine.Inoltre sono stati valutati la persistenza di genoma virale, in termini qualitativi e quantitativi, per i più comuni virus cardiotropi e il significato clinico-prognostico in una sottopopolazione di questi pazienti con miocardite, in confronto ad altri con cardiomiopatia primitiva ed un gruppo di controllo. Materiali e metodi. La ricerca del genoma virale all’interno dei cardiomiociti è stata eseguita su 59 pazienti con malattia del miocardio arruolati dal 1 gennaio 1991 al 31 giugno 2007: 16 pazienti con miocardite istologicamente accertata, 36 pazienti con cardiomiopatia dilatativa idiopatica appartenenti e 7 pazienti con cardiomiopatie primitive (6 con displasia aritmogena del ventricolo destro e 1 con cardiomiopatia restrittiva). Sono stati ricercati i genomi dei seguenti virus: Enterovirus, Adenovirus, Parvovirus B19, Herpes Simplex Virus -1 e -2, Epstein Barr Virus. Dalle biopsie endomiocardiche sono stati isolati gli acidi nucleici sia endogeni che virali, se eventualmente presenti, e l’efficienza dell’estrazione è stata valutata mediante PCR e Real Time PCR. Per quantificare del contenuto virale di ciascun campione positivo, si è deciso di procedere con la costruzione di plasmidi contenenti l’inserto da amplificare in modo da poter calcolare il numero di copie di ciascun campione e, dopo aver sottoposto ad amplificazione quantità scalari di ciascun plasmide, è stato possibile costruire delle curve di taratura in modo da estrapolare dalle stesse i valori quantitativi relativi a ciascun campione. Risultati. Degli 80 pazienti della nostra popolazione con diagnosi di miocardite attiva arruolati dal 1981 al 2006, il 70% era di sesso maschile, l’età media era di 37±16 anni e la frazione di eiezione media era di 37±17%. Dei 59 pazienti arruolati dal 1 gennaio 1991 al 31 giugno 2007, su cui è stata eseguita la ricerca di genoma virale, 16 (27%) presentavano diagnosi istologica di miocardite attiva (gruppo 1), 36 (61%) erano affetti da cardiomiopatia dilatativa idiopatica (gruppo 2), mentre i restanti 7 (12%) risultavano affetti da altre patologie primitive del miocardio (gruppo 3). Il tempo mediamente intercorso tra l’insorgenza dei sintomi e l’esecuzione della biopsia endomiocardica è stato di 6±14 mesi. Il 73% dei pazienti era di sesso maschile e l’età media della popolazione era di 3914 anni, i tre gruppi non si differenziavano in maniera significativa per l’età o il sesso alla diagnosi. Nei campioni di biopsia endomiocardica provenienti da questi pazienti non è stata individuata la presenza di genomi virali per quanto riguarda Enterovirus, HSV -1 e -2, EBV. Dei 59 pazienti, 23 (39%) risultarono positivi per Parvovirus B19, mentre un solo paziente, affetto da cardiomiopatia dilatativa, è risultato positivo per Adenovirus. Dei 23 pazienti positivi per Parvovirus B19, 4 (25%) appartenevano al gruppo 1, 17 (47%) pazienti al gruppo 2, mentre 2 (29%) al gruppo 3. La quantificazione del Parvovirus B19, nei pazienti con cardiomiopatia, ha dimostrato una quantità media di 8230 copie di genoma virale su 1000 cellule equivalenti, la quantità di genoma virale era particolarmente elevata soprattutto nei campioni di pazienti affetti da cardiomiopatia dilatativa. Per quanto riguarda il campione positivo per Adenovirus è importante sottolineare come la carica virale quantificata non è risultata molto elevata (4.76 ± 0.65 copie di genoma virale su 1000 cellule equivalenti) e che il paziente da cui fu prelevata la biopsia era affetto da cardiomiopatia dilatativa. Tra i 20 pazienti considerati come controlli, nessuno è risultato positivo a Enterovirus, Herpes simplex virus 1-2, Adenovirus ed Ebstein-Barr virus; 8 (40%) sono risultati positivi per Parvovirus B19. Discussione. Lo scopo di questo studio è stato quello di definire la caratterizazione virologico-molecolare delle miocarditi ed operare una sistematizzazione clinica evidenziando quali siano i corrispettivi clinici, le modalità di presentazione più frequenti e di descrivere l’evoluzione di questa malattia nel corso del follow-up. Numerose evidenze cliniche e sperimentali hanno sottolineato la capacità dei virus di invadere, persistere e replicare all’interno dei cardiomociti, dove possono favorire, a partenza da una miocardite acuta, lo sviluppo di un processo infiammatorio cronico alla base della successiva evoluzione verso quadri clinici di cardiomiopatia dilatativa. Di fatto però, il ruolo eziopatogenetico della persistenza del virus nel miocardio, evidenziata attraverso l’individuazione e l’amplificazione di sequenze nucleotidiche del genoma, non è chiaro e i dati riportati in letteratura sulle possibili implicazioni prognostiche e le conseguenti scelte terapeutiche, non sono univoci. Attualmente vi sono due maggiori ipotesi patogenetiche, per altro non mutuamente esclusive, di progressione del danno miocardico4 ed evoluzione clinica sfavorevole, a seguito di infezione virale del miocardio: 1) innesco di un processo di disreattività autoimmune; 2) persistenza del virus pur a seguito di un’adeguata risposta immunitaria da parte dell’ospite. Non risultano comunque ancora chiari i meccanismi attraverso cui si svilupperebbe la risposta immunitaria dell’ospite contro i patogeni virali e come potrebbe influire, rispetto a questi, la persistenza di genoma virale nel miocardio. A questo proposito è interessante il fatto (descritto da Kuhl et al) che le valutazioni immunoistochimiche ed istologiche, eseguite sui campioni bioptici di pazienti con disfunzione ventricolare, non abbiano evidenziato alcuna differenza significativa tra i pazienti con persistenza di genoma virale e quelli virus-negativi. La significativa prevalenza, riportata in letteratura, di genoma enterovirale nelle biopsie endomiocardiche, ha indotto a ritenere, per lungo tempo, che l’agente più frequentemente coinvolto nella miocardite virale fosse il Coxsackievirus B nell’adulto e l’Adenovirus nei bambini. I nostri dati contrastano con queste evidenze e risultano maggiomente in linea con studi più recenti, eseguiti con metodiche di biologia molecolare più accurate. Per quanto concerne la persistenza del genoma del Parvovirus B19, i dati in letteratura sono contrastanti: nello studio eseguito da Bowles et al nel 2003 il virus non è stato riscontrato in nessuna delle biopsie endomiocardiche effettuate, mentre in uno studio eseguito nel 2005 da Kuhl et al il 51% dei pazienti studiati è risultato positivo per Parvovirus B19 (in accordo con i nostri risultati), contro il 9% risultato positivo per Enterovirus, lo 0,8% positivo per Cytomegalovirus, il 2% per EBV e l’1,6% per Adenovirus. Non è chiaro se questa discrepanza sia da imputare a differenze geografiche, epidemiologiche o al differente profilo clinico dei pazienti considerati. Infatti Bowles et al hanno analizzato pazienti con diagnosi di miocardite acuta, mentre Kuhl et al hanno considerato pazienti con cardiomiopatia dilatativa idiopatica. D’altra parte la persistenza di genoma virale nei cardiomiociti di pazienti con cardiomiopatia dilatativa è molto variabile in letteratura (dallo 0 al 76%). Questa variabilità potrebbe essere spiegata sia dalle differenti tecniche utilizzate, sia dalla numerosità delle specie virali testate (che potrebbero aumentare la possibilità di errori), sia dai diversi tipi di campioni processati. Seppur con i limiti di un’esigua popolazione, nella nostra esperienza è evidente l’eterogeneità clinica ed eziopatogenetica dei pazienti in cui è stata ricercata la presenza di genoma virale, sia tra i pazienti con miocardite acuta sia tra quelli con cardiomiopatia dilatativa: le caratteristiche cliniche dei nostri pazienti all’arruolamento confermano come non sia possibile esaurire le implicazioni prognostiche e le strategie terapeutiche con una indagine virologico-molecolare. Nel nostro studio, in cui sono stati analizzati campioni endomiocardici provenienti da pazienti affetti sia da miocardite attiva, sia da cardiomiopatia dilatativa idiopatica, sia da altre patologie primitive del miocardio non è stata individuata la persistenza del genoma virale di virus cardiotropi quali Enterovirus, Human Herpes virus 1 e 2 , Epstein-Barr virus, Cytomegalovirus, mentre è stato individuato solo il Parvovirus B19 e in un caso l’Adenovirus. A fronte dell’eterogeneità clinica e strumentale dei pazienti analizzati, infatti, non sembrano esserci differenze per quanto riguarda la persistenza di genoma virale nei cardiomiociti dei gruppi di pazienti presi in esame; di fatto non abbiamo trovato persistenza di genoma per quel che riguarda i virus che più frequentemente vengono chiamati in causa nell’eziopatogenesi delle miocarditi e nella loro possibile evoluzione in cardiomiopatia dilatativa. Solo il Parvovirus B19 era presente in una quota sostanziale di pazienti, in linea con i dati di persistenza che si ritrovano in letteratura. I dati relativi a questo microrganismo evidenziano una persistenza del virus in tutti e tre i gruppi sottoposti a biopsia, anche se tendenzialmente maggiore nei campioni derivati da pazienti con cardiomiopatia dilatativa (che probabilmente solo in una quota parziale rappresentano l’evoluzione di un processo infiammatorio acuto), in cui la fase acuta, caratterizzata da una massiccia presenza virale, dovrebbe essere già terminata. Si è osservata inoltre una percentuale sostanzialmente sovrapponibile di persistenza del Parvovirus B19, sia per l’aspetto qualitativo che quantitativo, tra i pazienti affetti da patologie non primitive del miocardio e non imputabili ad un’eziologia virale. Questo porta a pensare che la persistenza del genoma virale rappresenti solo un epifenomeno della malattia (piuttosto che un fattore patogenetico) e che il parvovirus sia stato così frequentemente riscontrato a causa della sua estrema diffusione nella popolazione generale. Da queste osservazioni è possibile ipotizzare che il virus possa essere presente nel tessuto miocardico indipendentemente dall’eziologia della patologia in questione e che possa, quindi, non essere associato allo sviluppo della malattia. Questa ipotesi assume ancor più valore se si considera un recente studio da cui emerge come la presenza di una lesione nel muscolo cardiaco, sia anche associata a coronaropatia ischemica, aumenti la probabilità di riscontrare genoma virale. Questi dati, in linea con i nostri risultati, portano ad ipotizzare che il virus (soprattutto se molto frequente nella popolazione generale, come il parvovirus B19) semplicemente si possa localizzare più facilmente e rapidamente in un miocardio danneggiato severamente, senza determinare una successiva progressione della disfunzione ventricolare. Persistenza del genoma virale e prognosi. L’ipotesi di inquadrare la persistenza del genoma virale tra i possibili criteri prognostici, legati ad un outcome avverso, rimanda, quindi, alla necessità di capire al meglio la patogenesi dell’infezione virale. I risultati dei primi studi in merito suggeriscono che la presenza di disreattività autoimmune e la persistenza di genoma virale dovrebbero essere considerati come elementi dirimenti per scelte terapeutiche precise tra la terapia immunosoppressiva e quella anti-virale. Alcuni autori considerano la persistenza di genoma virale come una controindicazione alla terapia immunosoppressiva, dal momento che l’inibizione della risposta immune antivirale dell’ospite potrebbe favorire meccanismi di replicazione virale persistente, associati ad esacerbazione del danno miocardico. In un recente studio effettuato da Frustaci et al la persistenza virale e l’assenza di anticorpi anti-cuore, sono stati considerati predittori di non miglioramento clinico dopo sei mesi di terapia immunosoppressiva. Non sono emerse infatti differenze significative nei dati clinici, strumentali ed emodinamici all’arruolamento tra i pazienti responders e quelli non-responders alla terapia immunosoppressiva; l’unico dato significativo riguardava la differente prevalenza della persistenza del genoma virale nel miocardio. Emerge quindi la necessità di trial clinici prospettici e randomizzati per determinare se l’analisi molecolare possa realmente aiutare a predire la risposta terapeutica ad una strategia immunosoppressiva o antivirale specifica. I dati della nostra esperienza, dato l’esiguo numero di pazienti (peraltro eterogenei dal punto di vista clinico) e soprattutto la scarsa prevalenza di genoma virale nei cardiomiociti, non rende possibile l’esecuzione di un’analisi affidabile per l’identificazione l’eventuale ruolo prognostico della persistenza dei virus nelle miocarditi e nelle “cardiomiopatie infiammatorie”. Le numerose discrepanze dei dati presenti in letteratura, d’altra parte, rispecchiano una conoscenza ancora limitata del meccanismo eziopatogenetico, considerando l’estrema eterogeneità delle variabili implicate: entità della risposta immunitaria dell’ospite, agente patogeno coinvolto, meccanismi di danno cellulare (citopatico diretto o immunomediato), status di replicazione attiva o meno del virus, produzione di proteine virali oltre alla presenza di sequenze nucleotidiche. L’argomento resta dunque ancora controverso ed impone l’approfondimento degli studi relativi all’eziopatogenesi e l’esecuzione di studi prospettici controllati con follow-up rappresentativo. Conclusioni. Lo studio conferma che il polimorfismo clinico di presentazione della miocardite identifica pazienti con diversa storia naturale. La ricerca del genoma virale è risultata negativa, per i principali virus cardiotropi (tranne che per il Parvovirus B19), in pazienti con diverso tipo di cardiomiopatia primitiva, suggerendo una mancanza di importanza della persistenza virale nell’evoluzione delle miocarditi in cardiomiopatie dilatative; non si possono peraltro trarre conclusioni definitive in merito. Il parvovirus B19 è stato riscontrato in egual misura in pazienti con cardiomiopatia primitiva e in un gruppo di controlli affetti da cardiopatia secondaria, suggerendo che ciò possa derivare dall’alta prevalenza di questo virus nella popolazione generale e come forse, si correli come epifenomeno, piuttosto che come causa, ad un miocardio danneggiato. La nostra esperienza non consente di trarre conclusioni definitive sul ruolo prognostico della persistenza del genoma virale nè rispetto all’outcome a medio e lungo termine in pazienti con miocardite, nè rispetto al trattamento immunosoppressivo piuttosto che antivirale specifico. Tali quesiti andranno confermati con trial clinici di ampie proporzioni, e lungo follow-up prospettico. L’attenzione dovrebbe essere focalizzata su tre principali aspetti: in primo luogo non è chiaro se sia necessariamente l’infezione virale ad innescare il processo autoimmune, in caso contrario sarebbe possibile escludere l’autoimmunità come possibile causa di miocardite virale; laddove si dimostrasse l’esistenza di un processo autoimmune, la sua sola presenza non esaurirebbe il meccanismo eziopatogenetico nella sua complessità; inoltre, ammessa l’esistenza di un meccanismo di disreattività autoimmune, restano ancora da chiarire le modalità attraverso cui questo si verrebbe a scatenare (mimetismo molecolare, attivazione policlonale di linfociti autoreattivi, suscettibilità genetica determinata da particolari aplotipi del complesso HLA).XXII Cicl

    Role of Cardiac Imaging: Echocardiography

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    Echocardiography has crucial importance in the diagnosis of dilated cardiomyopathy (DCM). Echocardiographic features of DCM are left ventricular (LV) dilation and systolic dysfunction with impaired global contractility and normal LV wall thickness and LV diastolic dysfunction with elevation in LV filling pressure. Other frequent characteristics are LV dyssynchrony, right ventricular (RV) dysfunction, atrial dilation, functional mitral and tricuspid regurgitation, and secondary pulmonary hypertension. New echocardiographic technologies can be helpful, i.e., three-dimensional (3D) echocardiography for more accurate assessment of LV volumes and ejection fraction (EF) and speckle tracking for analysis of strain particularly for early diagnosis. Of note, many echocardiographic parameters have demonstrated important prognostic value in DCM

    New perspectives in diagnosis and risk stratification of non-ischaemic dilated cardiomyopathy

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    Dilated cardiomyopathy is a primitive heart muscle condition, characterized by structural and functional abnormalities, in the absence of a specific cause sufficient to determine the disease. It is, though, an 'umbrella' term that describes the final common pathway of different pathogenic processes and gene-environment interactions. Performing an accurate diagnostic workup and appropriate characterization of the patient has a direct impact on the patient's outcome. The physician should adapt a multiparametric approach, including a careful anamnesis and physical examination and integrating imaging data and genetic testing. Aetiological characterization should be pursued, and appropriate arrhythmic risk stratification should be performed. Evaluations should be repeated thoroughly at follow-up, as the disease is dynamical over time and individual risk might evolve. The goal is an all-around characterization of the patient, a personalized medicine approach, in order to establish a diagnosis and therapy tailored for the individual patient

    Left Ventricular Response to Cardiac Resynchronization Therapy: Insights From Hemodynamic Forces Computed by Speckle Tracking

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    Aims: Despite continuous efforts in improving the selection process, the rate of non-responders to cardiac resynchronization therapy (CRT) remains high. Recent studies on intraventricular blood flow suggested that the alignment of hemodynamic forces (HDFs) may be a reproducible biomarker of mechanical dyssynchrony. We aimed to explore the relationship between pacing-induced realignment of HDFs and positive response to CRT. Methods and results: We retrospectively analyzed 38 patients from the CRT database of our institution fulfilling the inclusion criteria for HDFs-related echocardiographic assessment early pre and post CRT implantation, with available mid-term follow-up ( 65 6 months) evaluation. Standard echocardiographic and deformation parameters early pre and post CRT implantation were integrated with the measurement of HFDs through novel methods based on speckle-tracking analysis. At midterm follow-up 71% of patients were classified as responders (reduction of Left Ventricular Systolic Volume Indexed 65 15%). Patients did not display significant changes between close evaluations pre and post-implant in terms of ejection fraction and strain metrics. A significant reduction of the ratio between the amplitudes of transversal and longitudinal force components was found. The variation of this ratio strongly correlates (R2 =0.60) with Left Ventricular (LV) end-systolic volume variation at mid-term follow up. Conclusion: Pacing-induced realignment of HDFs is associated with CRT efficacy at follow up. These preliminary results claim for dedicated prospective clinical studies testing the potential impact of HDFs study for patient selection and pacing optimization in CRT

    Clinical impact of myocardial fibrosis in severe aortic stenosis

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    8The pressure overload due to the progressive narrowing of the valve area determines the development of the left ventricular hypertrophy which characterizes aortic stenosis (AS). The onset of myocardial fibrosis marks the inexorable decline of an initially compensatory response towards heart failure. However, myocardial fibrosis does not yet represent a key element in the prognostic and therapeutic framework of AS. In this context, cardiac magnetic resonance imaging plays a major role by highlighting both the focal irreversible fibrotic replacement, using the late gadolinium enhancement (LGE) technique, and the earlier diffuse reversible interstitial fibrosis, using the T1 mapping techniques. For this reason, the presence of myocardial fibrosis would be useful to identify a subgroup of patients at greater risk of events among the subjects with severe AS. Actually, more and more evidences seem to identify the presence of LGE as a powerful prognostic factor to be used to optimize the timing of prosthetic valve replacement. Randomized clinical trials, such as the EVoLVeD trial currently underway, will be needed to better define the importance of myocardial fibrosis assessment in the management of patients with AS.openopenCastrichini, Matteo; Vitrella, Giancarlo; De Luca, Antonio; Altinier, Alessandro; Korcova, Renata; Pagura, Linda; Radesich, Cinzia; Sinagra, GianfrancoCastrichini, Matteo; Vitrella, Giancarlo; De Luca, Antonio; Altinier, Alessandro; Korcova, Renata; Pagura, Linda; Radesich, Cinzia; Sinagra, Gianfranc

    Relationship between aortic valve stenosis and the hemodynamic pattern in the renal circulation, and restoration of the flow wave profile after correction of the valvular defect

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    Objective The index of maximal systolic acceleration ([AImax]: maximal systolic acceleration of the Doppler waveform divided by peak systolic velocity) shows diagnostic accuracy in screening of renal artery stenosis. This study aimed to determine whether an upstream factor of resistance, such as aortic valve stenosis (AVS), can affect Doppler parameters detected in the peripheral arteries. Methods In this prospective study, we measured the AImax in non-stenotic renal interlobar arteries of 62 patients with AVS. Patients were divided into three groups on the basis of severity of valvulopathy as follows: mild-to-moderate AVS (M-AVS; n\u2009=\u200924), intermediate AVS (I-AVS; n\u2009=\u200915), and severe AVS (S-AVS; n\u2009=\u200923) based on Nishimura\u2019s criteria. Results The AImax in the renal parenchymal arteries was significantly lower in the S-AVS group (8.9\u2009\ub1\u20093.6 s 121) than in the M-AVS (15.3\u2009\ub1\u20093.8 s 121) and I-AVS groups (16.7\u2009\ub1\u20095.2 s 121). The AImax was positively correlated with the aortic valve area and inversely correlated with the tranvalvular aortic pressure gradient. After aortic valve replacement, the AImax significantly increased from 10.7\u2009\ub1\u20094.0 s 121 at baseline to 19.3\u2009\ub1\u20094.4 s 121. Conclusions Proximal resistance can lead to diagnostic bias of Doppler parameters that are applied in the diagnosis of peripheral vasculopathies, particularly in renal artery stenosis

    Sacubitril/Valsartan Induces Global Cardiac Reverse Remodeling in Long-Lasting Heart Failure with Reduced Ejection Fraction: Standard and Advanced Echocardiographic Evidences

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    Sacubitril/valsartan reduces mortality in heart failure with reduced ejection fraction (HFrEF) patients, partially due to cardiac reverse remodeling (RR). Little is known about the RR rate in long-lasting HFrEF and the evolution of advanced echocardiographic parameters, despite their known prognostic impact in this setting. We sought to evaluate the rates of left ventricle (LV) and left atrial (LA) RR through standard and advanced echocardiographic imaging in a cohort of HFrEF patients, after the introduction of sacubitril/valsartan. A multi-parametric standard and advanced echocardiographic evaluation was performed at the moment of introduction of sacubitril/valsartan and at 3 to 18 months subsequent follow-up. LVRR was defined as an increase in the LV ejection fraction 6510 points associated with a decrease 6510% in indexed LV end-diastolic diameter; LARR was defined as a decrease >15% in the left atrium end-systolic volume. We analyzed 77 patients (65 \ub1 11 years old, 78% males, 40% ischemic etiology) with 76 (28-165) months since HFrEF diagnosis. After a median follow-up of 9 (interquartile range 6-14) months from the beginning of sacubitril/valsartan, LVRR occurred in 20 patients (26%) and LARR in 33 patients (43%). Moreover, left ventricular global longitudinal strain (LVGLS) improved from -8.3 \ub1 4% to -12 \ub1 4.7% (p 25% of cases, both at standard and advanced echocardiographic evaluations

    Cardiac Tumors: Diagnosis, Prognosis, and Treatment

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    Cardiac masses frequently present significant diagnostic and therapeutic clinical challenges and encompass a broad set of lesions that can be either neoplastic or non-neoplastic. We sought to provide an overview of cardiac tumors using a cardiac chamber prevalence approach and providing epidemiology, imaging, histopathology, diagnostic workup, treatment, and prognoses of cardiac tumors
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