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    Morfologia e funzione patologica nell’ippocampo associata al trattamento con 3,4-metilendiossimetanfetamina (ecstasy)

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    Introduzione Ecstasy è il nome comune della 3,4-metilendiossimetanfetamina (MDMA). Si tratta di un derivato dell’anfetamina strutturalmente correlato alla mescalina. Gli effetti inducono psicostimolazione, allucinazioni, e, a lungo termine, effetti neuropsichiatrici come psicosi e depressioni. La sostanza fu brevettata in Germania da Merk nel 1914 (Shulgin, 1990) come soppressore dell’appetito, ma non fu mai immessa sul mercato. Successivamente rimase sconosciuto ed inutilizzato per molti anni finché non divenne la droga più popolare dei rave party, feste in cui si ballava fino all’alba, molto popolari negli anni ottanta e novanta. I piacevoli effetti comportamentali, che comprendono aumento dell’empatia, riduzione del senso di ansia e perdita delle inibizioni, associati con l’apparente scarsità di effetti collaterali, hanno portato all’affermazione dell’ecstasy come droga ricreazionale (Morton, 2005). L’MDMA interferisce con le funzioni del sistema nervoso centrale e periferico, agendo principalmente sul sistema serotonergico (Lyles e Cadet, 2003). La sostanza possiede proprietà simpatico-mimetiche (Seiden et al., 1996) e può modulare la funzione psicomotoria (Bankson et al., 2001) e neuroendocrina (de la Torre et al., 2000). L’azione dell’MDMA sul sistema nervoso centrale è complessa, poiché colpisce principalmente le vie serotonergiche ma può colpire anche le vie di trasmissione dopaminergiche e noradrenergiche (Morton, 2005). La sua tossicità si attua mediante il legame con i tre trasportatori presinaptici delle monoamine, con affinità più elevata per i trasportatori della serotonina. Agisce, inoltre, come un agonista monoaminergico indiretto legandosi a diversi recettori classici, con affinità più elevata per i recettori ?2-adrenergici, 5-HT2 serotonergici, M-1 muscarinici e H-1 per l’istamina, e affinità più bassa, per i recettori muscarinici M-2, ?1 e ?-adrenergici, 5-HT1 serotonergici ed i recettori D1 e D2 dopaminergici (Green et al., 2003). Ci sono importanti differenze tra le varie specie animali in merito alla sensibilità ad MDMA. Nei topi, a differenza di quanto avviene in ratti e primati, in cui gli effetti sono per lo più limitati ai neuroni serotonergici, MDMA sembra colpire principalmente il sistema dopaminergico nigrostriatale determinando un rapido rilascio di dopamina (DA) dal tessuto cerebrale (Colado et al., 2004). Meccanismi di neurotossicità da MDMA È stato proposto che gli agenti causali della degenerazione a lungo termine indotta da MDMA siano i suoi metaboliti che generano radicali liberi, associati con stress ossidativo e danneggiamento delle membrane (Colado et al., 1993; Paris e Cunnigham, 1992). I metaboliti dell’ MDMA generano specie reattive attraverso cicli redox. Queste specie reattive potrebbero causare danno ossidativo alle proteine ed ai lipidi che compongono le terminazioni nervose. Inoltre i catecoli, gli idrochinoni ed i chinoni vanno incontro a spontanea ossidazione utilizzando idrogeno e generando superossido e perossido di idrogeno che portano a perossidazione lipidica e danneggiamento delle terminazioni serotonergiche. Queste osservazioni sono sostenute dal fatto che il trattamento con scavenger dei radicali liberi previene la neurotossicità indotta da MDMA (Colado et al., 1995). Coinvolgimento preferenziale del sistema limbico negli abusatori di MDMA Gli studi di neurotossicità da MDMA si sono focalizzati quasi esclusivamente sui gangli della base (sul sistema nigro-striatale), ad ogni modo l’evidenza che l’MDMA induce anomalie elettroencefalografiche (Dafters et al., 1999; Gamma et al., 2000) e danneggiamento cognitivo richiede l’analisi del potenziale coinvolgimento di aree cerebrali diverse dai gangli della base. I nostri studi hanno dimostrato un maggior coinvolgimento del sistema limbico rispetto ai gangli della base. Il ruolo del sistema limbico appare importante in quanto si tratta di un’area coinvolta nella memoria e nelle attività cognitive. Infatti i consumatori di MDMA hanno difficoltà nel codificare informazioni di memoria a lungo termine, difficoltà nell’apprendimento verbale, sono più facilmente distratti e sono meno efficienti nel concentrarsi durante prove complesse. Il livello di danno è in relazione alla severità dell’uso (Lundqvist, 2005). Le immagini di risonanza magnetica funzionale in soggetti umani facenti uso di MDMA evidenziano delle differenze rispetto a soggetti di controllo in un test di associazioni viso-professione per la memoria episodica, ed in particolare i consumatori di MDMA, presentano l’attivazione di un’area più ristretta nell’ippocampo sinistro rispetto ai controlli (Daumann et al., 2005). Inoltre i consumatori di MDMA, con tempi di reazione più prolungati nei test di attenzione, non riescono ad attivare in maniera normale l’ippocampo nei test di memoria verbale (Jacobsen et al., 2004). Inizialmente i disturbi mnemonici e cognitivi sono stati attribuiti al fatto che l’MDMA danneggia i neuroni serotonergici (McCann et al., 1998; Semple et al., 1999; Reneman et al., 2001); tali studi si sono soffermati sull’uso dei livelli cerebrali di trasportatori serotonergici, come indicatori di integrità neuronale. Tuttavia la possibilità di un danno diretto per i neuroni dell’ippocampo non è stata mai indagata in maniera specifica. Solo recentemente è stato visto nel topo che dosi ripetute di MDMA producono stress ossidativo, rottura del DNA a singolo e doppio filamento, e cambiamenti metabolici di lunga durata nell’ippocampo, associati con suscettibilità ad attacchi convulsivi limbici (Frenzilli et al., 2007). I cambiamenti elettroencefalografici indotti nel topo da MDMA sono coerenti con l’aumento dell’eccitabilità limbica (Giorgi et al., 2005). Nel complesso questi dati suggeriscono che il sistema limbico, e con esso l’ippocampo, potrebbe essere un’area cerebrale preferenziale per l’azione neurotossica dell’MDMA. In altri termini, i neuroni appartenenti al sistema limbico potrebbero rappresentare bersagli primariamente colpiti da questa droga. Alterazioni cognitive ed iperfosforilazione della tau Nell’uomo le malattie neurodegenerative caratterizzate da deficit cognitivo portano ad alterazioni strutturali delle proteine del citoscheletro ed in particolare dei microtubuli. I microtubuli sono coinvolti nel mantenimento della corretta polarità cellulare e nel trasporto assonale (Buee et al., 2000). Probabilmente le proteine associate ai microtubuli (MAPs) sono le principali responsabili del mantenimento di tali funzioni. Tra queste proteine la proteina tau appartenente al gruppo delle MAPs è localizzata principalmente nell’assone (Leger et al., 1994); essa gioca un ruolo fondamentale nell’assemblaggio dei monomeri di tubulina in microtubuli, nel mantenimento della struttura dei microtubuli (Alonso et al., 2001), e nella costruzione di legami tra microtubuli ed altri componenti citoscheletrici o proteine (Buee et al., 2000). In vivo, tau induce la costruzione e la stabilizzazione dei microtubuli cellulari, promuove la crescita assonale e stabilisce e mantiene la corretta polarità cellulare (Leger et al., 1994) Nella malattia di Alzheimer ed in altre patologie neurodegenerative le proteine tau si aggregano in filamenti dritti ed accoppiati ad elica (Sergeant et al., 2005), col progredire della patologia le fibrille si associano tra di loro a formare delle dense reti di filamenti interconnessi tra di loro che prendono il nome di grovigli neurofibrillari; è stato visto che la quantità di grovigli neurofibrillari è correlata con la severità della demenza (Arriagada et al., 1992; Flament et al., 1990). Una serie di studi hanno evidenziato la presenza di elevati livelli di fosforilazione nei filamenti accoppiati ad elica, la principale forma di tau filamentosa presente nella malattia di Alzheimer, indicando così un importante ruolo della fosforilazione nello sviluppo dei grovigli neurofibrillari (Sergeant et al., 2005; Buee et al., 2005; Lee et al., 2001). In effetti l’isoforma iperfosforilata di tau non si lega alla tubulina ma inibisce in vitro l’assemblaggio dei microtubuli e distrugge i microtubuli preformati, sequestrando la tau normale e le proteine ad elevato peso molecolare associate ai microtubuli (MAPs) (Alonso et al., 1994) portando alla destabilizzazione dei microtubuli stessi (Bramblett et al., 1993; Biernat et al., 1993) e alterando il trasporto assonale (Stamer et al., 2002; Mandelkow et al., 2004). L’anormale iperfosforilazione di tau, tramite tali meccanismi, conduce a degenerazione, formazione di grovigli neurofibrillari e demenza (Iqbal et al., 2005). L’iperfosforilazione di tau sembra essere controllata sia a livello dell’enzima che a livello del substrato (Iqbal et al., 2005). La regolazione a livello dell’enzima avviene per attivazione di una o più chinasi e si riduce per attivazione di una o più fosfatasi. Sono stati identificati più di 25 siti differenti nei quali tau può essere fosforilata da diverse protein chinasi (Iqbal et al., 2005). Si crede che i due principali enzimi coinvolti nell’iperfosforilazione di tau siano la chinasi ciclina-dipendente 5 (Cdk5) e la glicogeno sintetasi chinasi 3 beta (GSK-3?), due chinasi serina/treonina dipendenti (Hanger et al., 1992; Ishiguro et al., 1992; Mandelkow et al., 1992; Paudel et al., 1993). La regolazione a livello del substrato avviene ad opera della struttura di tau, in particolare si è visto che isoforme di tau con due inserti amino-terminali sono maggiormente suscettibili alla fosforilazione da parte di Cdk5 seguita da fosforilazione da parte di GSK-3? (Sengupta et al., 1997). Infatti delle proteine tau si conoscono diverse isoforme ottenute dallo splicing alternativo di 11 esoni nel cromosoma 17 (17q21). Le isoforme del sistema nervoso centrale sono prodotte dallo splicing dell’esone 2, 3 e 10; questo produce sei isoforme di tau in un range che va da 352 a 441 aminoacidi. La variabilità è in relazione sia con la porzione carbossi-terminale sia con quella amino-terminale della molecola. Coinvolgimento della glicoproteina Dickkopf-1 Dickkopf-1 è una glicoproteina secreta che agisce come antagonista selettivo della via canonica di Wnt interagendo con le lipoproteine a bassa densità legate ai recettori LRP 5/6, che sono anche i recettori delle glicoproteine Wnt. Nella “via canonica” di Wnt queste glicoproteine si legano ad un gruppo di recettori noti come “Frizzled receptors” ed “LRP5/6” promuovendo una cascata di eventi intracellulari che inibiscono l’attività della glicogeno sintetasi chinasi 3? (GSK-3?) e che quindi prevengono la fosforilazione, ubiquitinazione e anche la degradazione di una serie di proteine tra le quali la beta-catenina e le proteine tau. Un effetto indotto dalla fosforilazione della beta-catenina è che questa migra nel nucleo della cellula dove promuove la trascrizione di geni importanti per l’omeostasi e la sopravvivenza neuronale. Dkk-1 agisce legandosi ad LRP quindi impedendo l’interazione di queste con le proteine Wnt (Zorn, 2001; Mao et al., 2002; Grotewold e Ruther, 2002 a e b, Huelsken e Behrens, 2002) determinando l’internalizzazione del recettore. Una delle conseguenze del blocco della via di Wnt è un’aumentata degradazione della ?-catenina risultante dalla disinibizione di GSK-3? (Kim et al., 2003; Levina et al., 2004). Ciò priva i neuroni del supporto trofico fornito dal programma genico portato avanti dalla ?-catenina (Willert e Nusse, 1998), portando alla sua fosforilazione e degradazione da parte del complesso ubiquitina/proteosoma quindi non rendendola più disponibile per la traslocazione nucleare (Aberle et al., 1997). Alternativamente la ?-catenina può essere fosforilata da GSK-3? nel nucleo (Bijur e Hope, 2003). Oltre che promuovere la degradazione della ?-catenina, l’inibizione della via di Wnt da parte di Dkk-1 potrebbe anche promuovere la fosforilazione della proteina tau mediata da GSK-3? con conseguente danneggiamento delle dinamiche citoscheletriche (Caricasole et al., 2004). La proteina tau è un costituente essenziale dei microtubuli e l’anomala struttura ne impedisce la polimerizzazione causando, da un lato, il suo addensamento in grovigli insolubili e, dall’altro, la mancata sintesi dei microtubuli e la perdita delle funzioni ad essi legate, in particolare il trasporto di sostanze da una parte all’altra della cellula. Nel presente studio abbiamo valutato l’alterazione della glicoprioteina Dickkopf-1 (Dkk-1) nel cervello di topi trattati con MDMA. Studi recenti dimostrano, infatti, che l’induzione di tale proteina può costituire un evento chiave nello sviluppo della morte neuronale ischemica ed eccitotossica (Cappuccio et al., 2005). In virtù di questo ruolo ne abbiamo valutato l’espressione come marker di vulnerabilità neuronale. Scopo dello studio Lo scopo di questo studio consiste nel valutare il coinvolgimento delle aree limbiche nel danno indotto dall’MDMA e la presenza di alterazioni cognitive, biochimiche e comportamentali in topi trattati con MDMA, in acuto ed in cronico. Questa caratterizzazione si è basata sulla valutazione dello stress ossidativo dal momento che è stato proposto nella parte introduttiva che gli agenti causali della degenerazione a lungo termine indotta da MDMA siano i suoi metaboliti che generano radicali liberi, associati con stress ossidativo e danneggiamento delle membrane (Colado et al., 1993; Paris e Cunnigham, 1992); sulla valutazione, in particolar modo nell’ippocampo rispetto ad altre aree, dello stato di fosforilazione della proteina tau e delle vie coinvolte in questo fenomeno tra cui la glicoproteina Dkk-1 valutazioni effettuate in relazione al loro coinvolgimento nello sviluppo di patologie neurodegenerative e nello sviluppo delle demenze. Materiali e metodi Animali Gli esperimenti sono stati condotti su topi C57/BL6 maschi di 10 settimane di vita (Charles River, Calco, CO, Italia) o topi omozigoti per un allele ipomorfico di Dkk-1 (topi doubleridge) (gentilmente forniti da M.H. Meisler, Università di Michigan, USA) usando topi C3H come controlli wild-type (Charles River, Calco, CO, Italia). I topi doubleridge sono mutanti inserzionali privi di un enhancer trascrizionale nel gene per Dkk-1 (MacDonald et al., 2004). Tutti i topi sono stati tenuti in condizioni ambientali controllate (temperatura ambiente = 22° C, umidità = 40%) in un ciclo luce/buio di 12 ore con cibo ed acqua ad libitium. Gli esperimenti sono stati condotti seguendo le Linee Guida per la Cura e l’Uso degli Animali dell’Istituto Nazionale di Sanità. Strategie sperimentali: protocolli di somministrazione dell’MDMA In tutti gli esperimenti i topi C57/BL6 sono stati trattati, sia acutamente che ripetutamente, con MDMA. Il trattamento acuto consisteva di due somministrazioni consecutive intraperitoneali (i.p.) di 25 mg/kg di MDMA cloridrato racemico (iniettati a due ore di intervallo). La dose cumulativa di 50 mg/kg corrisponde a 42 mg/kg di MDMA base libera. In alternativa i topi sono stati trattati per 6 giorni con due somministrazioni consecutive intraperitoneali (i.p.) di 15 mg/kg di MDMA cloridrato racemico (iniettati a due ore di intervallo). La dose cumulativa di 30 mg/kg corrisponde a 23.5 mg/kg di MDMA base libera al giorno per sei giorni. Queste dosi sono state selezionate sapendo che i consumatori assumono da 80 a 250 mg di MDMA al giorno, e che l’equivalente dose parenterale negli animali può essere calcolata secondo la relazione Duomo= Danimale (Wuomo/Wanimale)0.7 dove D è la dose della droga in mg e W è il peso corporeo in kg (Green et al., 2003). Secondo questa relazione le dosi selezionate nel topo sono approssimativamente equivalenti ad una dose acuta di 217 mg o 130 mg giornalieri per 6 giorni in un uomo di 70 kg. I topi di controllo sono stati trattati esclusivamente con salina. Tutti i topi sono stati sacrificati per decapitazione in tempi differenti (da 1 a 7 giorni dopo il trattamento acuto con MDMA e da 1 giorno a 3 mesi dopo iniezioni ripetute di MDMA). In un ulteriore ciclo di esperimenti l’MDMA (25 mg/Kg x 2 i.p. = 50 mg/Kg) è stato somministrato a topi ipomorfici per Dkk-1 (topi doubleridge; n = 6) usando topi C3H come linea wild-type. Gli animali di controllo sono stati sottoposti a due iniezioni consecutive di salina (a distanza di 2 h). I topi doubleridge e C3H sono stati sacrificati mediante decapitazione 1 giorno dopo il trattamento con MDMA o salina. Infine, l’MDMA (25 mg/Kg x 2 i.p. = 50 mg/Kg) è stato iniettato in topi pre-trattati con cloruro di litio (1 mEq/kg, i.p. ogni dodici ore iniziando 7 giorni prima di un trattamento con MDMA) e/o pre-trattati con l’inibitore dell’enzima Cdk5, roscovitina (30 nmol/2?l di DMSO 50%, i.c.v. due volte, 30 minuti prima di ognuna delle due iniezioni consecutive di MDMA). I topi di controllo sono stati trattati con salina (i.p.) (due iniezioni consecutive a distanza di 2 h) in topi pre-trattati i.p. con salina (ogni 12 ore a partire da 7 giorni prima del trattamento con salina) e/o pre-trattati i.c.v. con DMSO 50% (2?l, i.c.v., 30 minuti prima di ognuna delle due consecutive iniezioni di salina). Tutte le iniezioni i.c.v. sono state effettuate tramite una cannula guida impiantata in animali anestetizzati con ketamina (100 mg/Kg) + xilazina (10 mg/Kg), i.p., (coordinate: AP -0.8 mm; ML 1.4 mm; DV -2.4 mm dal cranio dell’animale, secondo l’atlante Paxinos e Franklin, 1997). Tutti gli animali sono stati uccisi per decapitazione 1 giorno dopo il trattamento con MDMA o salina. I cervelli prelevati sono stati usati per l’analisi istologica/immunoistochimica e biochimica. Da ciascun cervello, un emiencefalo è stato fissato in Carnoi, incluso in paraffina, sezionato a 10 ?m e processato per analisi istologica/immunoistochimica. Dall’altro emiencefalo sono state microdissezionate le aree cerebrali di interesse (ippocampo e striato) e le proteine sono state processate per l’ analisi Western blot. Analisi istologica e quantitativa Per valutare la possibile degenerazione neuronale le sezioni sparaffinate (10 ?m) sono state processate per colorazione con la tionina (colorazione Nissl). Dopo lavaggi in dH2O, le sezioni sono state incubate per 8 minuti in tionina. Per valutare il danno ippocampale, il numero di neuroni sopravvissuti nello strato di cellule piramidali è stato contato con un metodo non stereologico per la valutazione della densità neuronale (neuroni per mm3 di tessuto, Nv) utilizzando la formula seguente: Nv=NA/(t+D), dove NA è il numero di neuroni per mm2 di tessuto, t è lo spessore della sezione, e D è il diametro del neurone (Abercrombie, 1946). I neuroni di forma rotonda simile a quella comunemente osservata nelle sezioni di controllo sono stati considerati vitali. È stata anche valutata la presenza di morte neuronale, tramite colorazione Fluoro-Jade B che marca i neuroni in degenerazione come fluorescenza verde (Schmued et al., 1997; Schmued e Hopkins, 2000). A tal fine, le sezioni sparaffinate (10 ?m) sono state incubate 20 minuti in una soluzione di acido acetico allo 0.1% /v/v) contenente lo 0.001% (w/v) di Fluoro-Jade B e successivamente analizzate mediante un microscopio a fluorescenza. Per la valutazione della presenza di frammentazione del DNA, sono state usate sezioni paraffinate di 10 micron e processate per il TUNEL labeling utilizzando il kit In situ cell Death detection, POD (Roche Applied Science, Mannheim, Germania). Immunoistochimica I cervelli prelevati sono stati fissati in Carnoi (miscela di Etanolo/Ac.acetico/Cloroformio, 6:1:3), inclusi in paraffina e sezionati a 10 ?m. Le sezioni sono state sparaffinate mediante immersione in xilene per 40 minuti ed immerse in soluzioni di etanolo successive (dal 100% al 70%) fino all’immersione in acqua distillata per 6 min. Eliminata la paraffina, sono state immerse in perossido di idrogeno al 3% per bloccare l'attività delle perossidasi endogene. L’immunoistochimica è stata eseguita con tecnica immunoperossidasica basata sul metodo del complesso avidina-biotina (ABC elite kit, Vector Laboratories,Burlingame, CA, USA). I campioni sono stati incubati per 12 ore con un anticorpo monoclonale di topo anti-proteina fibrillare acida gliale (GFAP) (1:400, Signa Aldrich, Milano, Italia) e poi per 1 ora con l’anticorpo biotinilato anti-IgG di topo (1:200; Vector Laboratoires, Burlingame, CA, USA); con l’anticorpo di coniglio anti-fosfo-tau (pSer404) (P-tau, 1:100, Signa Aldrich, Milano, Italia) e poi per 1 ora con l’anticorpo secondario biotinilato anti-IgG di coniglio (1:200; Vector Laboratoires, Burlingame, CA, USA); con l’anticorpo monoclonale di topo anti-PHF tau (PHF-1, 1:100; pSer396 e pSer404) e poi per 1 ora con l’anticorpo biotinilato anti-IgG di topo (1:200; Vector Laboratoires, Burlingame, CA, USA); con l’anticorpo monoclonale di ratto anti-Dkk-1 (Dkk-1, 1:10; R&D System Inc. Minneapolis, MN, USA) e poi per 1 ora con l’anticorpo biotinilato anti-IgG di ratto (1:200; Vector Laboratoires, Burlingame, CA, USA). Per quanto riguarda l’immunistochimica per Dkk-1 la procedura ha richiesto un passaggio di smascheramento antigenico eseguito mediante incubazione nel tampone citrato (10 mM, pH 6) riscaldato in forno a microonde a 350 W per 10 minuti. Come sistema di rivelazione è stata utilizzata la 3,3’-diamminobenzidina (DAB) come substrato perossidasico. La colorazione di controllo è stata eseguita senza gli anticorpi primari. L’immunopositività per P-tau e PHF tau è stata quantificata misurando la densità ottica della regione CA2/CA3 ippocampale in sezioni colorate usando un sistema applicato ad un software di immagine (NIH Image Software, Bethesda, MD, USA). Analisi tramite Western blot I tessuti di topo sono stati omogeneizzati a 4° C in un tampone di lisi con un omogeneizzatore Teflon-glass (1700 rev/min). 5 ?l di tessuto sono stati utilizzati per la determinazione delle proteine, 50 ?g di proteine sono stati

    Oncogenomic Approaches in Exploring Gain of Function of Mutant p53

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    Cancer is caused by the spatial and temporal accumulation of alterations in the genome of a given cell. This leads to the deregulation of key signalling pathways that play a pivotal role in the control of cell proliferation and cell fate. The p53 tumor suppressor gene is the most frequent target in genetic alterations in human cancers. The primary selective advantage of such mutations is the elimination of cellular wild type p53 activity. In addition, many evidences in vitro and in vivo have demonstrated that at least certain mutant forms of p53 may possess a gain of function, whereby they contribute positively to cancer progression. The fine mapping and deciphering of specific cancer phenotypes is taking advantage of molecular-profiling studies based on genome-wide approaches. Currently, high-throughput methods such as array-based comparative genomic hybridization (CGH array), single nucleotide polymorphism array (SNP array), expression arrays and ChIP-on-chip arrays are available to study mutant p53-associated alterations in human cancers. Here we will mainly focus on the integration of the results raised through oncogenomic platforms that aim to shed light on the molecular mechanisms underlying mutant p53 gain of function activities and to provide useful information on the molecular stratification of tumor patients

    The role of autophagy in epileptogenesis and in epilepsy-induced neuronal alterations

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    Abstract Recent evidence suggests that autophagy alterations are present in a variety of neurological disorders. These range from neurodegenerative diseases to acute neurological insults. Thus, despite a role of autophagy was investigated in a variety of neurological diseases, only recently these studies included epilepsy. This was fostered by the evidence that rapamycin, a powerful autophagy inducer, strongly modulates a variety of seizure models and epilepsies. These findings were originally interpreted as the results of the inhibition exerted by rapamycin on the molecular complex named ‘‘mammalian Target of Rapamycin’’ (mTOR). Recently, an increasing number of papers demonstrated that mTOR inhibition produces a strong activation of the autophagy machinery. In this way, it is now increasingly recognized that what was once defined as mTORpathy in epileptogenesis may be partially explained by abnormalities in the autophagy machinery. The present review features a brief introductory statement about the autophagy machinery and discusses the involvement of autophagy in seizures and epilepsies. An emphasis is posed on evidence addressing both pros and cons making it sometime puzzling and sometime evident, the role of autophagy in the epileptic brain

    The effects of proteasome on baseline and methamphetamine-dependent dopamine transmission.

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    Abstract The Ubiquitin Proteasome System (UPS) is a major multi-catalytic machinery, which guarantees cellular proteolysis and turnover. Beyond cytosolic and nuclear cell compartments, the UPS operates at the synapse to modulate neurotransmission and plasticity. In fact, dysregulations of the UPS are linked with early synaptic alterations occurring in a variety of dopamine (DA)-related brain disorders. This is the case of psychiatric conditions such as methamphetamine (METH) addiction. While being an extremely powerful DA releaser, METH impairs UPS activity, which is largely due to DA itself. In turn, pre- and post- synaptic neurons of the DA circuitry show a high vulnerability to UPS inhibition. Thus, alterations of DA transmission and UPS activity are intermingled within a chain of events underlying behavioral alterations produced by METH. These findings, which allow escaping the view of a mere implication of the UPS in protein toxicity-related mechanisms, indicate a more physiological role for the UPS in modulating DA-related behavior. This is seminal for those plasticity mechanisms which underlie overlapping psychiatric disorders such as METH addiction and schizophrenia

    Autophagy as a gateway for the effects of methamphetamine: From neurotransmitter release and synaptic plasticity to psychiatric and neurodegenerative disorders.

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    As a major eukaryotic cell clearing machinery, autophagy grants cell proteostasis, which is key for neurotransmitter release, synaptic plasticity, and neuronal survival. In line with this, besides neuropathological events, autophagy dysfunctions are bound to synaptic alterations that occur in mental disorders, and early on, in neurodegenerative diseases. This is also the case of methamphetamine (METH) abuse, which leads to psychiatric disturbances and neurotoxicity. While consistently altering the autophagy machinery, METH produces behavioral and neurotoxic effects through molecular and biochemical events that can be recapitulated by autophagy blockade. These consist of altered physiological dopamine (DA) release, abnormal stimulation of DA and glutamate receptors, as well as oxidative, excitotoxic, and neuroinflammatory events. Recent molecular insights suggest that METH early impairs the autophagy machinery, though its functional significance remains to be investigated. Here we discuss evidence suggesting that alterations of DA transmission and autophagy are intermingled within a chain of events underlying behavioral alterations and neurodegenerative phenomena produced by METH. Understanding how METH alters the autophagy machinery is expected to provide novel insights into the neurobiology of METH addiction sharing some features with psychiatric disorders and parkinsonism

    Identification of novel human breast carcinoma (MDA-MB-231) Cell growth modulators from a carbohydrate-based diversity oriented synthesis library

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    The application of a cell-based growth inhibition on a library of skeletally different glycomimetics allowed for the selection of a hexahydro-2H-furo[3,2-b][1,4]oxazine compound as candidate inhibitors of MDA-MB-231 cell growth. Subsequent synthesis of analogue compounds and preliminary biological studies validated the selection of a valuable hit compound with a novel polyhydroxylated structure for the modulation of the breast carcinoma cell cycle mechanism
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