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Qualche riflessione su Eur. <i>Bacch.</i> 962
Non è sempre facile ricostruire con accettabile
approssimazione la dimensione visuale di una tragedia greca. Nella
sezione del dramma suggellata dal v. 962, invece, (preceduta da alcuni versi
preparatori, che dilatano la "cerimonia della vestizione", e prefigurano
punto per punto, creando attesa, ciò che il pubblico vedrà a breve) molte
battute equivalgono a una didascalia che definisce fin nei dettagli più
minuti l'elemento visivo (costume, postura e gestualità): si tratta di una
sorta di "percorso guidato" alla corretta comprensione e fruizione di questo
passaggio clou delle Baccanti. È sull'elemento visivo, evidentemente,
che doveva convergere l'attenzione dello spettatore (cfr. v. 914) e perciò,
altrettanto evidentemente, nelle intenzioni di Euripide l'elemento visivo,
in questa sezione, rivestiva - oserei dire alla maniera eschilea - una funzione
espressiva determinante, era un potente veicolo di senso; però qui
l'elemento visivo acquista massimo spessore e compiutezza di significato
in quanto culmina ed è sorretto - in una interazione assolutamente cogente
tra opsis e lexis - dalla battuta del v. 962, che ha il suo fulcro nella piena
forza semantica di άνήρ, termine-chiave dunque nell'architettura dell'intera
scena
A proposito di un <i>aprosdoketon</i> aristofaneo (<i>Nub.</i> 1496)
Nell'ultima scena delle Nuvole, là dove Strepsiade consuma la propria vendetta 'radicale' contro Socrate e i suoi adepti, i commentatori rilevano che Aristofane utilizza con la maestria dei momenti migliori la tecnica
comica dell'άντικωμωεϊν, mettendo in bocca - in chiave ironica - allo stesso Strepsiade (v. 1503) le medesime parole pronunciate da Socrate al v. 225. Anche al v. 1496 troviamo una battuta che ne richiama un'altra del primo incontro tra Strepsiade e Socrate: "Uomo, che fai?" esclama il discepolo di Socrate mentre Strepsiade, con l'aiuto del servo, appicca il fuoco al Pensatoio; e il vecchio replica: "Che faccio? Niente: "διαλεπτολο-γοϋμαι ταϊς δοκοϊς της οίκίας".
Questo studio analizza l'aprosdoketon presente nel v. 1496 e ne propone un'interpretazione
Giasone e il linguaggio del guadagno nella <i>Medea</i> di Euripide
La tragedia imperniata sulla grandiosa figura di Medea - è superfluo ricordarlo - continua ad essere uno dei drammi più studiati dell'intera produzione euripidea, oggetto di una bibliografia sterminata e in perenne incremento: la
sua ricchezza e la sua polisemanticità, infatti, autorizzano a non smettere di scandagliarla e quantomeno a tentare ulteriori approfondimenti esegetici.
In questo studio mi propongo di esaminare quello che si
può definire il linguaggio dell'utile e più specificamente del guadagno in relazione al personaggio di Giasone
Epicuro "cieco"? Un problema esegetico in Luc. <i>Alex.</i> 47
A mia conoscenza, i traduttori dell'Alessandro (e io stessa, pur interrogandomi
sul perché di tale epiteto, nella mia versione del 1988), con un paio
di eccezioni su cui tornerò più oltre, rendono άλαoίo tout court con "cieco",
o con locuzioni perfettamente equivalenti ("che di vista è privo" traduce ad
esempio Vincenzo Longo, cui si deve per i tipi della UTET l'unica edizione
italiana con testo a fronte degli opera omnia del Samosatense) secondo il
valore usuale fornito dai principali lessici per άγαóς - termine raro poetico e
già presente in Omero nel significato concreto e attinente al "vedere" in
senso fisico. Ma era forse "cieco" Epicuro? Un dato biografico di questa
rilevanza non sarebbe certo sfuggito a Diogene Laerzio, che, pur trattando
diffusamente della cattiva salute del filosofo, invece non ne fa parola.
Perché allora, nel verso pronunciato da Alessandro, ci si riferisce a Epicuro
mediante l'espressione "vecchio cieco"
A proposito di Omero "babilonese" (Lucian. <i>V.H.</i> II 20)
Il viaggio fantastico narrato da Luciano nelle Storie vere contempla, nel
secondo libro, una tappa e un soggiorno dell'autore-protagonista-narratore
nelle Isole dei beati, dove ha occasione di conoscere una folta rappresentanza
di illustri personaggi del mito e della storia, nonché una schiera di filosofi
e poeti, tra cui naturalmente il "divino" Omero.
Facendo di
Omero - padre e nume tutelare delle graecae litterae - un "babilonese", ovvero
un barbaro orientale esattamente come lui, e per giunta quasi un "connazionale, Luciano istituisce scherzosamente un parallelo e vuole suggerire ai suoi lettori addirittura una sorta di assimilazione tra se stesso e il più
grande di tutti