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    Alimentazione, ambiente e malattie cronico-degenerative: nuove metodologie di valutazione del rischio

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    Introduzione La valutazione del rischio sanitario associato a fattori di interesse nutrizionale e/o tossicologico (risk assessment) rappresenta un ambito di grande interesse per la popolazione generale, la comunità scientifica e gli operatori di sanità pubblica. Tale processo mira a definire adeguate misure ed indicazioni di sicurezza alimentare, ambientale e occupazionale, e favorire un’appropriata comunicazione del rischio ed efficaci interventi di medicina preventiva. Alla valutazione dei rischi sanitari attribuibili ai diversi fattori di tipo chimico e fisico presenti negli alimenti e negli ambienti di vita e di lavoro (‘fattori ambientali’ in senso lato) contribuiscono da un lato i singoli ricercatori attraverso i loro lavori originali di ricerca o meta-analisi, dall’altro gli enti e le istituzioni specificatamente deputati al processo di risk assessment, quali nello specifico per l’Unione Europea la European Food Safety Authority (EFSA), con sede nel nostro Paese a Parma. La valutazione del rischio attribuibile ai fattori ambientali e nutrizionali prevede diverse fasi metodologiche, tre delle quali sono state soggette a profonde innovazioni nel corso degli ultimi anni e sono di seguito brevemente analizzate: 1) l’identificazione e la valutazione metodologica della letteratura epidemiologica; 2) l’analisi ed interpretazione dei risultati di tale letteratura; 3) la formulazione di valutazioni finali condivise, superando eventuali differenze di opinione tra gli esperti. Identificazione e valutazione della letteratura pertinente al risk assessment Non vi è dubbio come ogni processo di valutazione del rischio sanitario debba basarsi in primo luogo sull’identificazione della letteratura scientifica pertinente. A tal fine, è naturalmente necessario effettuare una ricerca bibliografica rigorosa, completa ed infine illustrata in modo ‘trasparente’. In questa prospettiva, la metodologia adottata dai processi di valutazione del rischio sanitario si avvicina molto a quella adottata per le rassegne sistematiche, caratterizzandosi per una scelta il più possibile estensiva delle ‘parole chiave’ per identificare la letteratura di interesse, e per una strategia di ricerca e selezione degli studi facilmente riproducibile da chiunque. Ciò comporta l’uso di archivi bibliografici quali PubMed e la nota banca dati da esso contenuta Medline, EMBASE, Scopus e Web of Science (anche quest’ultimi contenenti Medline), ed eventualmente Google Scholar (in realtà più motore di ricerca che archivio bibliografico in senso proprio). Viene talora utilizzata per il risk assessment anche la letteratura ‘grigia’, ritrovabile però mediante ricerche complesse e non facilmente riproducibili attraverso archivi quali Conference Proceedings Citation Indexes di WoS, ERIC, PsycINFO, CINHAL, ProQuest Dissertations & Theses Global, International Guideline Library, e l’URL http://www.opengrey.eu/. L’appropriatezza dell’uso di tale letteratura grigia è tuttavia controversa, trattandosi di materiale bibliografico talora di limitata qualità e non sottoposto a valutazione ‘tra pari’. Dopo aver identificato gli articoli di interesse, occorre valutarne la pertinenza mediante l’esame del loro testo integrale, ed infine compiere una valutazione della qualità metodologica (critical appraisal o risk of bias assessment). Quest’ultimo processo è estremamente delicato ed influenza in modo sostanziale l’intero processo di valutazione del rischio. Esso prevede la valutazione delle principali distorsioni metodologiche degli studi, quali errori nella stima espositiva, presenza di confondimento, distorsione di selezione e di classificazione degli esiti sanitari, descrizione incompleta dei risultati e improprietà dell’elaborazione statistica. Valutazioni di questo tipo vengono frequentemente effettuate mediante l’uso di ‘griglie’ precodificate (quali il Risk of Bias della Cochrane Collaboration, o l’OHAT del National Toxicologiy Program statunitense). L’uso di tali griglie, tuttavia, non elimina del tutto la soggettività intrinseca del processo valutativo, con inevitabili conseguenze sul giudizio globale dell’evidenza scientifica resa disponibile da tali studi e quindi sui risultati finali del risk assessment, specie qualora ci si intenda basare essenzialmente sugli studi considerati di buona qualità. In questa prospettiva, una valutazione troppo severa delle distorsioni comporta l’eliminazione ingiustificata di studi potenzialmente interessanti (sino ad azzerare in alcuni casi l’intera disponibilità di studi!), compromettendo il processo di risk assessment. Al contrario, un processo di valutazione delle distorsioni troppo blando può portare all’inclusione nel processo valutativo di letteratura di validità incerta o francamente inadeguata, anche in questo caso viziando le valutazioni finali. Metodologia di analisi ed interpretazione dei dati L’analisi dei dati complessivamente generati dalla letteratura scientifica, sia di tipo epidemiologico che tossicologico, rappresenta un passaggio cruciale per il risk assessment. In questo ambito, due sono le metodologie epidemiologico-biostatistiche il cui uso si sta progressivamente diffondendo nell’ambito della sanità pubblica, con effetti benefici anche sul processo di risk assessment. In primo luogo, nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un incremento esponenziale dell’uso di metodologie biostatistiche ‘dose-risposta’ nell’ambito del processo di risk assessment e più in generale nella ricerca epidemiologica e nelle rassegne sistematiche. Tali metodologie consistono essenzialmente nella cosiddetta spline regression analysis, di cui oggi è divenuto sempre più frequente l’applicazione non solo agli studi originali ma anche alle meta-analisi, mediante routines messe a punto da statistici quali l’italiano Nicola Orsini (www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22135359). Tali procedure, il cui codice sorgente è liberamente disponibile per programmi statistici quali R e Stata (https://ideas.repec.org/c/boc/bocode/s458546.html), permettono uno straordinario rafforzamento del processo di risk assessment, in quanto consentono di modellizzare con precisione relazioni complesse quali quelle caratterizzanti gli effetti sanitari dei fattori ambientali e nutrizionali. Tali relazioni, infatti, sono frequentemente non-lineari, caratterizzandosi per curve ad ‘U’ o ‘J’ o di tipologia più complessa, persino nei casi di sostanze cancerogene specie se non genotossiche e certamente nel caso di fattori nutrizionali. La descrizione precisa la rappresentazione grafica di tali relazioni dose-risposta non lineari permette pertanto di identificare le soglie espositive alle quali si verificano effetti carenziali e/o tossici in associazione a specifiche esposizioni ambientali e nutrizionali. Tali informazioni sono di grande rilevanza per il risk assessment in quanto permettono di individuare standards quali il ‘safe level’, l’upper level e il lower level delle esposizioni di interesse. I processi di valutazione del rischio hanno infatti generalmente e arbitrariamente assunto l’esistenza di relazioni lineari tra esposizioni ed effetti sanitari, ignorando la complessità di tali relazioni specie nel caso di fattori aventi sia proprietà nutrizionali che tossicologiche. Pertanto, sulla base di tali erronee assunzioni di linearità, sono state generalmente utilizzate nel risk assessment metodologie biostatistiche quali procedure di regressione logistica o lineare o persino semplici analisi di correlazione. Per quanto riguarda le meta-analisi, l’assunzione aprioristica di relazioni lineari tra esposizioni e relativi effetti sanitari ha portato al diffondersi dell’uso dei forest plots, cioè della rappresentazione grafica del rischio relativo associato alla categoria espositiva più elevata esaminata in ciascun studio rispetto a quella meno elevata, con in aggiunta il calcolo del rischio relativo cumulativo. I limiti di tale metodologia sono evidenti: essa non è infatti in grado di modellizzare le relazioni dose-risposta complesse e non lineari, ed in modo particolare quelle che possono caratterizzare i livelli espositivi intermedi. In secondo luogo, tale approccio è caratterizzato dalla comparazione delle categorie espositive tratte dai diversi studi e generalmente assai diverse tra loro. Tale eterogeneità determina l’impropriatezza delle comparazioni effettuate tra gli studi e dello stesso rischio relativo cumulativo, come evidenziano altresì le profonde differenze tra i risultati generati dalle due metodologie in alcuni specifici contesti di valutazione del rischio (https://www.ahajournals.org/doi/pdf/10.1161/JAHA.116.004210). Una seconda, fondamentale problematica metodologica associata all’analisi dei dati ed all’interpretazione dei risultati è legata all’uso del valore della cosiddetta ‘funzione P’ come indicatore della presenza di effetti ‘causali’, generalmente attraverso la sua dicotomizzazione sulla base delle due soglie tradizionali pari a 0.05 e 0.001. Questo approccio consente l’individuazione in un singolo studio o in una meta-analisi della cosiddetta ‘significatività statistica’ dei risultati ottenuti, cioè dell’erroneità della cosiddetta ‘ipotesi nulla’. Tale metodologia ha sfortunatamente pervaso l’intera ricerca biomedica (nonché altre discipline) da quasi un secolo, da quando cioè nel 1925 lo statistico inglese Ronald Fisher ipotizzò come un valore di P inferiore a 0.05 consentisse di attribuire l’esistenza della cosiddetta ‘significatività’ alle differenze osservate tra singoli sottogruppi nell’ambito di uno studio. Questo approccio ha esercitato gravi effetti sull’analisi e l’interpretazione dei risultati della ricerca scientifica, assegnando in modo erroneo a tale valore di 0.05 la capacità di validare o escludere l’effettiva esistenza di relazioni causali. Intere generazioni di professionisti e ricercatori, specie in ambito sanitario, si sono così formate all’uso di tale criterio ‘convenzionale’ nell’interpretazione dei risultati delle analisi statistiche, col rischio di commettere in tal modo seri errori metodologici quali l’attribuzione di un effettivo ruolo causale alle associazioni ‘statisticamente significative’ (<0.05 e soprattutto <0.001) o l’esclusione di tale nesso di causalità nel caso opposto. L’apprezzabile lavoro di metodologi quale l’epidemiologo statunitense Kenneth Rothman e numerosi altri ricercatori e metodologi, e più recentemente dell’intera Associazione Statistica degli Stati Uniti (https://amstat.tandfonline.com/doi/full/10.1080/00031305.2016.1154108) ha evidenziato l’impropriatezza delle interpretazioni basate sulla significatività statistica e quindi su soglie prefissate del valore di P. Recentemente, un articolo di Nature (https://www.nature.com/articles/d41586-019-00857-9), sottoscritto da diverse centinaia di ricercatori e prontamente ripreso dalla Società Italina di Igiene nel numero del 13 aprile 2019 di ‘Igienisti-on-line’ (http://www.igienistionline.it/archivio/2019/10.htm), ha ribadito l’importanza di abbandonare l’uso e il concetto della significatività statistica, a favore dell’analisi delle stime di effetto, della loro instabilità statistica (illustrata dagli intervalli di confidenza) e dell’analisi delle distorsioni metodologiche caratterizzanti i singoli studi. Anche nelle procedure di risk assessment, pertanto, l’uso della significatività statistica sta conoscendo una profonda ‘crisi d’identità’, con progressiva diminuzione della sua utilizzazione e della sua validità metodologica, come già da tempo riconosciuto da Enti quali l’EFSA (https://efsa.onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.2903/j.efsa.2011.2372). Gestione delle differenze di opinione nel processo di valutazione del rischio I processi di valutazione del rischio sono generalmente effettuati da gruppi di lavoro comprendenti diversi esperti nelle tematiche prese in esame (quali epidemiologia, tossicologia e nutrizione). Tali esperti procedono all’individuazione della letteratura di interesse, all’analisi dei suoi risultati eventualmente anche mediante la conduzione di meta-analisi e la considerazione delle evidenze e plausibilità biologico-tossicologiche accanto a quelle epidemiologiche, ed infine all’individuazione di standard espositivi quali ad esempio average requirement (AR), adequate intake (AI), Tolerable Upper Intake Level (UL) e reference intake range (RI). Può naturalmente accadere che nel processo di risk assessment i membri di un singolo gruppo di lavoro manifestino differenze interpretative e valutative anche marcate sui reali livelli espositivi, carenziali o da eccesso, associabili ad effetti nocivi per la salute umana, e quindi sugli esiti del risk assessment. Esistono al proposito modalità per la gestione e la composizione di tali conflitti d’opinione, che prevedono tra l’altro la formulazione corretta dei quesiti, la formazione progressiva di un consenso tra gli esperti, e la documentazione trasparente e accurata di tale processo e delle aree residue di incertezza. Tecniche di gestione e superamento delle differenze d’opinione di questo tipo sono denominate Expert Knowledge Elicitation, e sono sempre più frequentemente adottate da agenzie quali l’EFSA (https://efsa.onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.2903/j.efsa.2014.3734). Tali metodologie, di cui esistono diverse varianti, mirano ad ottenere dagli esperti l’affinamento delle proprie opinioni sulle soglie di rischio, procedendo con sistematici aggiustamenti e riesami al progressivo avvicinamento delle opinioni dei diversi esperti, senza permettere a nessuno di essi di ‘prevaricare’ nel processo decisionale, e al contempo evitando di renderne irrilevante il contributo. Un interessante esempio dell’uso e dell’importanza di tali metodologie nel processo di valutazione del rischio è stato recentemente offerto da EFSA nel formulare la sua opinione sui livelli ottimali dell’assunzione di sodio attraverso la dieta, pubblicata nel settembre 2019 (https://efsa.onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.2903/j.efsa.2019.5778)

    Cadmium exposure and risk of prediabetes and diabetes: A systematic review and dose-response meta-analysis

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    BACKGROUND AND AIM: Elevated cadmium exposure has been associated with altered glucose metabolism, albeit the shape of such relation is still debated. We aimed at investigating the shape of the relation between cadmium exposure and type 2 diabetes and prediabetes. METHODS: We performed a systematic review with meta-analysis on the relation between biomarkers of cadmium exposure and disease risk. After performing an online literature search through March 15, 2021, we identified 34 eligible studies with cohort, cross-sectional and case-control design. RESULTS:In the meta-analysis comparing highest-versus-lowest cadmium exposure, there was an increased type 2 diabetes risk, with summary risk ratios (RRs) of 1.30 (95% confidence interval (CI): 1.00-1.69), 1.22 (95% CI 1.00-1.50), and 1.47 (95% CI 1.01-2.13) for blood, urine, and toenail cadmium concentrations, respectively. Similarly, we found a higher prediabetes risk in subjects with higher both urine and blood cadmium concentrations with RRs of 1.41 (95% CI 1.15-1.73) and 1.38 (95% CI 1.16-1.63), respectively. In the dose-response meta-analysis, compared with no exposure, prediabetes risk increased up to approximately 2 µg Cd/g creatinine, above which it reached a plateau with RR of 1.40 (95% CI 1.12-1.76) at 2 µg Cd/g creatinine. We also detected a substantial linear positive association between diabetes risk and urinary cadmium, with RR of 1.30 (95% CI 0.92-1.84) at 2.0 µg Cd/g creatinine. Diabetes risk also appeared to increase with higher blood cadmium concentrations but only above 1 µg/L, with RR of 3.25 (95% CI 1.13-9.37) at 2 µg/L. Despite limited data, there was little indication of differences in association by study design (cohort vs. case-control or cross-sectional), method of cadmium assessment, or sex (male vs. female). CONCLUSIONS:Overall, there was consistent evidence for a positive association between cadmium exposure and both prediabetes and diabetes risk. KEYWORDS: Heavy metals, Cardiovascular diseases, Endocrine disrupting chemicals, Environmental epidemiology, Toxicolog

    Dual role of selenium in health and disease

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    The relation between selenium and the etiology of human diseases is still partially unclear, appears to have a Janus-faced nature and is influenced by the chemical form of the element. While selenium was suggested to decrease cancer risk by observational studies and a randomized controlled trial (RCT), recent large RCTs showed no effect or even adverse effects of selenium on cancer risk, suggesting that the earliest studies were affected by exposure misclassification or unmeasured confounding. RCTs also showed no influence of selenium on cardiovascular risk and an adverse effect on diabetes risk. Conversely, RCTs indicated a beneficial effect of selenium on Keshan disease, a cardiomyopathy described in low-selenium areas in China, though the etiology of this disease is still not entirely elucidated. Selenium may also be involved in the etiology of neurological disease. This dual and intriguing activity of selenium on human health shown by epidemiologic studies is mirrored by laboratory studies. Thus, there is the need of a reassessment of what constitutes a safe intake of selenium in humans

    Risk of childhood leukemia and exposure to outdoor air pollution. Updated review and dose-response meta-analysis

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    Leukemia is the most frequent malignant disease of childhood. Most epidemiologic studies have suggested that exposure to traffic pollutants may increase the risk of childhood leukemia. We updated our previous review and metaanalysis as some recent studies have now available, and we also performed a dose-response metaanalysis using traffic estimators

    Wetland Loss in Northeastern Italy Documented by Historical Maps

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    Abstract. Historical landscape and habitat reconstruction can be an important mitigation tool for regional habitat loss, conservation and restoration (NRC 1992; Swetnam et al. 1999; Steiner 2000). Among landscapes and habitats, wetlands play an important role in providing ecosystem services. Any loss of wetland areas may cause serious and sometimes irreparable environmental and habitat damages (Soule, 1991). Wetlands have a paramount importance for ecosystems and are protected by the Ramsar Convention and regulated and valorized, in different ways, by local and/or regional protection agency and laws.Analysing trends of wetlands loss on a regional scale can now be performed using geo-historical approaches and remote sensing and GIS technologies. Many notable examples of wetlands loss studies using a combined geohistorical and GIS approach may be find in the literature. Much of the previous research on wetlands loss has focused on the United States where wetlands are more legally protected and regulated. Little research has focused on wetlands in southern Europe. The focus of this research is on wetland loss in the Southern Venetian-Po Plain (Northeastern Italy) through a comparison of contemporary and historical data with the analysis of remote sensing and historical maps. In particular, this work focuses on the province of Padova, well known for their abundance of inland wetlands in the past although greatly disrupted through drainage and agricultural expansion in the last century.The Southern Venetian Po-Plain is an alluvial plain located between the Lagoon of Venice, the Po river and the Veneto pre-Alps piedmont region. This region is currently characterized by an apparent scarcity of wetlands in comparison to what is represented in many historical maps and described in historical documents. Some studies on wetlands in parts of the Venetian region have been conducted using different approaches. Typical research focused on single portions of larger wetlands or single ponds for the study of current biochemical conditions and ecosystems in the environment (e.g. Serandrei-Barbero et al., 2011; Pappalardo et al., 2016). Research on more extensive wetlands, land reclamations and humans-rivers relationships mostly focus on the analysis of the socio-economical conditions in the Po Delta and the Lagoon of Venice (e.g. Bertoncin, 2002; Novello, 2009). Despite numerous works on singular ponds or studies on larger water bodies in the Venetian area, there is still a poor knowledge of the amount, the extension and the type of wetlands in the Southern Venetian Po-Plain. A comprehensive survey of wetlands for the Venetian area has never been conducted, and the 'official' data are notably incomplete.The objectives of this work were: 1) to perform a survey (Figure 1) of both historic and present-day wetlands in the province of Padova (northeastern Italy) using historical cartography (1882 map of the province of Padova by O. Morelli) and recent aerial orthophotos (2015), 2) to provide a first estimation of the extraordinary loss of wetlands in this province due mostly to land reclamation processes of the last century, and 3) to discuss the prospects for further historical wetlands analysis based on additional historic maps (1776, 1801, 1862, 1882, 1980) for a key area called Bassa Padovana (Padova's lowland). All quantitative analyses were performed through the use of a GIS. This research contributes to the discussion of small isolated wetlands (Figure 2) that have been created in the last century and their unique role in the ecosystems.</p

    Comparative analysis of plant genomes allows the definition of the "Phytolongins": a novel non-SNARE longin domain protein family

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    <p>Abstract</p> <p>Background</p> <p>Subcellular trafficking is a hallmark of eukaryotic cells. Because of their pivotal role in the process, a great deal of attention has been paid to the SNARE proteins. Most R-SNAREs, or "longins", however, also possess a highly conserved, N-terminal fold. This "longin domain" is known to play multiple roles in regulating SNARE activity and targeting via interaction with other trafficking proteins. However, the diversity and complement of longins in eukaryotes is poorly understood.</p> <p>Results</p> <p>Our comparative genome survey identified a novel family of longin-related proteins, dubbed the "Phytolongins" because they are specific to land plants. Phytolongins share with longins the N-terminal longin domain and the C-terminal transmembrane domain; however, in the central region, the SNARE motif is replaced by a novel region. Phylogenetic analysis pinpoints the Phytolongins as a derivative of the plant specific VAMP72 longin sub-family and allows elucidation of Phytolongin evolution.</p> <p>Conclusion</p> <p>"Longins" have been defined as R-SNAREs composed of both a longin domain and a SNARE motif. However, expressed gene isoforms and splice variants of longins are examples of non-SNARE motif containing longins. The discovery of Phytolongins, a family of non-SNARE longin domain proteins, together with recent evidence on the conservation of the longin-like fold in proteins involved in both vesicle fusion (e.g. the Trs20 tether) and vesicle formation (e.g. σ and μ adaptin) highlight the importance of the longin-like domain in protein trafficking and suggest that it was one of the primordial building blocks of the eukaryotic membrane-trafficking machinery.</p
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