7 research outputs found

    Cerebellar atrophy as a delayed manifestation of chronic carbon disulfide Poisoning

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    A 70-year-old man developed a slowly progressive cerebellar syndrome after having been exposed to carbon disulfide (CS2) in a viscose rayon plant for 27 years. Ataxia, dysmetria, dysarthria and adiadochokinesia appeared 7 years after retirement from work (at age 54), and were later accompanied by cognitive deterioration, dysmnesia, spatio-temporal disorientation, emotional lability, and paranoid-obsessive disturbances. Brain computed tomography (CT) and magnetic resonance imaging (MRI) showed advanced global cerebellar atrophy, and a picture of less severe cerebrocortical atrophy. The case illustrates the possibility of chronic toxic encephalopathy among patients with previous long-term exposure to CS2. In such instances, cerebellar damage may develop as an exceptional, delayed manifestation of neurotoxicity: brain imaging techniques can significantly contribute to the diagnosis and follow-up, in addition to occupational anamnesis and neuropsychiatric evaluation. The patient presented also serves as a remainder that neurodegenerative disorders of apparently unknow origin sometimes derive from occupational toxic exposures suffered in the past. The clinical manifestations may appear several years after retirement from work, when the effects of toxic damage combine with age-related neuronal loss to overcome the brain functional reserve

    Dermopatie professionali: analisi della casistica diagnosticata presso l’Istituto Scientifico di Pavia della Fondazione Maugeri nel periodo gennaio 1996 – aprile 2002

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    Le dermopatie costituiscono una percentuale notevole (almeno il 10-30%) delle malattie professionali. I compiti della medicina del lavoro nei confronti di tali patologie vanno dalla definizione della diagnosi, alla identificazione degli agenti e delle modalità d’esposizione responsabili, all’adozione di misure terapeutiche e preventive, ad adempimenti di natura medico-legale. In tale contesto, abbiamo ritenuto utile svolgere un’indagine retrospettiva sulle dermopatie occupazionali diagnosticate presso il nostro Istituto negli ultimi anni. I nostri dati indicano che, nonostante alcuni progressi compiuti negli ultimi anni in ambito preventivo, le dermopatie professionali continuano ad essere di frequente riscontro nella pratica clinica. Nella presente casistica, tali malattie sono state diagnosticate soprattutto nelle donne e in soggetti attorno ai 40 anni; nessuna età lavorativa è risultata tuttavia risparmiata. La casistica conferma l’elevata frequenza in Italia di allergopatie cutanee professionali (DAC, orticaria da contatto, angioedema), già segnalata in passato. Queste malattie possono presentarsi in associazione tra loro e/o con asma bronchiale

    Il Flock: nuovo fattore di rischio per le interstiziopatie polmanari occupazionali

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    I tradizionali fattori di rischio per le interstiziopatie polmonari lavoro-correlate comprendono: l’asbesto, la silice cristallina, metalli, fibre artificiali, polveri organiche e microorganismi. Tuttavia, negli ultimi anni, si è iniziato a focalizzare l’attenzione, soprattutto nel Nord America, su un potenziale nuovo fattore di rischio: il “Flock”. Con tale termine si intendono piccole e corte fibre, utilizzate in moltissimi ambiti: industria tessile, automobilistica, dei giocattoli…, con lunghezza variabile tra 0,2 e 5 mm, prodotte attraverso un processo continuo da filamenti di nylon, rayon o poliestere. Questi filamenti vengono trattati con additivi (acido tannico, etere di ammonio…) ed a volte colorati prima di essere tagliati da una “taglierina rotativa ad alta velocità” nella “Flocking room”. Questo metodo è molto veloce, ma poco preciso e netto nel taglio, producendo così fibre di lunghezze diverse e con superfice irregolare per la presenza di piccoli filamenti (<10 micron) che protrudono e possono poi staccarsi, disperdersi nell’ambiente ed essere inalati. Le fibre vengono poi asciugate, centrifugate, separate a seconda delle dimensioni e imballate. Il Flock viene applicato ad alcuni tessuti per renderne la superficie simil-vellutata. Un tessuto di cotone da un lato e di poliestere dall’altro viene fatto passare su rulli dove viene ricoperto da una sostanza adesiva (latice acrilico) nella quale vengono poi incorporate le fibre tramite un campo elettrostatico. Durante questa operazione il Flock è misto a polvere silicea essicante che serve per prevenirne l’agglomerazione. Dopo l’asciugatura il tessuto rivestito può essere sottoposto a stampaggio meccanico e colorato con inchiostri ad acqua o subire altre finiture. Tra una produzione e l’altra (cambio di colore, di dimensione delle fibre ecc.) si procede ad una operazione di pulizia chiamata “blow-down”: i Flock residui rimasti sulle macchine, sul pavimento o sul muro vengono eliminati tramite aria compressa. Le fasi a maggior rischio inalatorio sono quelle svolte nella Flocking room e durante il Blow-down. Dal 1996, in seguito alla richiesta rivolta al NIOSH di indagare sui potenziali effetti del Flock, si incominciò a ipotizzare una correlazione tra l’esposizione a Flock e l’insorgenza di interstiziopatie polmonari. Nel 1997 furono presentati da Kern alla Società Americana di Medicina Toracica i dati preliminari sul “Flock Worker’s lung”. A ciò seguirono altri vari lavori, l’ultimo dei quali conferma il nesso causale tra fattore di rischio e interstiziopatia polmonare. Dal punto di vista clinico i sintomi sono aspecifici: tosse secca accompagnata a volte da febbricola, malessere generalizzato e dispnea ingravescente. È stato dimostrato che tale sintomatologia migliora dopo l’allontanamento dal lavoro oppure con il cambio di mansione in aree non produttive e quindi non esposte al rischio, senza alcuna terapia. La gravità dei quadri patologici riscontrati è molto variabile, da semplici irritazioni delle alte vie aeree con rino-congiuntiviti fino alla fibrosi polmonare. La diagnosi si basa su criteri strumentali: in particolare la tomografia computerizzata ad alta risoluzione (HRTC) del torace può evidenziare infiltrati a vetro-smerigliato, aree di addensamento, micronoduli diffusi e interstiziopatia periferica ad alveare; nel liquido di lavaggio bronco-alveolare (BAL) si riscontra una cellularità atipica con eosinofilia o linfocitosi; alla biopsia polmonare si evidenziano infiltrati linfocitari nodulari peribronchiolari o interstiziali diffusi con bronchiolite linfocitaria e fibrosi interstiziale (ciò suggerisce una risposta immunologica cronica all’inalato). In definitiva si può parlare di “Flock worker’s lung” quando, in seguito ad una accertata esposizione professionale al Flock, compaiano sintomi respiratori persistenti con evidenza di patologia interstiziale polmonare senza migliore spiegazione. Tuttavia gli studi epidemiologici effettuati hanno dei limiti, che vanno dalla limitatezza del campione, alla non esatta quantificazione dell’esposizione, all’eventuale ruolo che possono avere gli additivi utilizzati durante la produzione nello sviluppo della patologia. Al momento risulta fondamentale una attenta sorveglianza sanitaria degli operai esposti per un pronto allontanamento dal lavoro ai primi sintomi; un abbattimento del rischio con modifiche del ciclo produttivo, utilizzo di protezioni respiratorie e di aspiratori; ma soprattutto la ricerca di marker precoci d’esposizione. Ad esempio si sta valutando la possibilità di correlare dati ottenuti con la tecnica dello sputo indotto con quelli evidenziati tramite il lavaggio bronco-alveolare, al fine di porre diagnosi con metodi meno invasivi
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