La definizione di strategie progettuali capaci di descrivere una gerarchia crescente di alterazione dell’esistente, di definire una progressione dei gradi di trasformazione, ci porta a distinguere differenti categorie di manipolazione e differenti attuatori. Tuttavia, all’interno di uno scenario urbano idealizzabile come una immensa rovina, in cui coesistono i frammenti incompiuti e abbandonati, cioè i rifiuti della città che si costruisce (o tenta di farlo), le rovine della città della storia e del tardo Moderno, ha ancora senso distinguere il progetto di recupero di un edificio (nelle varie declinazioni restauro/riuso/riciclo), dal progetto di un edificio? È ancora necessaria la distinzione formulata da Dal Co tra restauratori, unici depositari della conoscenza di alcune tecniche capaci di risolvere scientificamente i conflitti che ogni intervento di restauro comporta e gli architetti ‘creativi’? L’affermarsi di una cultura del vincolo e della conservazione come atto eroico di difesa nei confronti dei processi degenerativi degli ultimi decenni ha determinato la convinzione che il nuovo comprometta e persino distrugga l’esistente; il nuovo è causa della perdita di quei valori artistici e di identità dei luoghi e dei beni che li costituiscono. L’architettura muove da modificazioni successive e non offre mai un’immagine stabile; appellarsi alla sola scientificità di un metodo rigoroso che mortifica l’atto creativo e fa perdere quella radice poetica, propria della nostra disciplina, ha condotto la pratica del restauro architettonico a privilegiare la coincidenza tra l’azione conoscitiva e l’azione creativa in cui è l’opera stessa a suggerire l’atto progettuale. Al progetto è negata la possibilità di alterare l’immagine in un processo di cristallizzazione dell’esistente che proclama l’azione di conservazione come unica via possibile