Il palladio delle libertà. Il giurí nella penalistica napoletana postunitaria

Abstract

Il saggio passa in rassegna le opinioni favorevoli e contrarie - entro una complessiva cornice storico-ideologica - all’introduzione di una “giuria”, sul modello degli ordinamenti anglosassoni, in particolare nella penalistica napoletana postunitaria. L’attenzione si concentrava soprattutto sulle modalità di composizione dell’elemento popolare della corte d’assise: le proposte provenienti dai penalisti meridionali suggerivano di ridimensionare l’incidenza del censo a vantaggio delle qualità intellettuali dei giurati. Altro punto dolente consisteva nella difficoltà di discernere – come invece pretendevano il codice di rito e l'ordinamento giudiziario – tra questioni di fatto e di diritto. In linea di massima, i fautori del giurí subivano il fascino del modello britannico, col tradizionale anelito di libertà e in grado di esprimere appieno il sentimento ‘popolare’ di giustizia. La conclusione di queste complesse e variegate discussioni si ebbe agli inizi del ‘900 con il codice di procedura penale del 1913, ove si preferì un’originale proposta di c.d. scabinato: ossia un sistema misto, basato sulla cooperazione tra giudici del fatto e giudici del diritto, che sul lungo periodo si sarebbe rivelato capace «di rimarginare antiche ferite e di indebolire le resistenze della giustizia italiana verso la compartecipazione popolare»

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