La panificazione ha radici molto antiche: la forma di pane più antica rinvenuta in Europa (Twann, Svizzera) risale al 3530 a.C., ma sono stati gli Egiziani i primi a far lievitare l’impasto utilizzando la lievitazione naturale, ancora oggi utilizzata nella lavorazione di prodotti tipici tradizionali come il Pandoro ed il Panettone, ma anche del pane toscano a lievitazione naturale, un pane bianco, caratterizzato dall’assenza di sale, ottenuto utilizzando come materie prime farina di grano tenero, acqua e lievito naturale.
L’impiego del lievito naturale ha riflessi positivi sulla conservabilità, sulla digeribilità, ma anche sulle caratteristiche organolettiche del pane finito, che si manifestano con un sapore ed un aroma peculiari, dovuti alla formazione di sostanze volatili aromatiche, che si formano durante la lievitazione e quindi la cottura.
Poiché il conferimento del marchio DOP prevede che siano chiaramente ed univocamente individuate le caratteristiche che legano il prodotto finito al territorio di riferimento (Regione Toscana), non è possibile accettare degli intervalli di variabilità troppo elevati per i parametri che lo caratterizzano. Per assicurare la richiesta riproducibilità, occorre disporre di approfondite informazioni sulla composizione della microflora presente nell’impasto per evidenziare l’esistenza di eventuali correlazioni che la legano ai parametri chimico-fisici e organolettici del pane finito. A questo scopo dovranno essere individuate le relazioni che intercorrono tra le principali variabili tecnologiche (temperature, tempi, composizioni delle materie prime e degli intermedi di processo, pH, concentrazione di etanolo, concentrazione in acido lattico ed acetico, ecc.) e lo sviluppo delle diverse popolazioni microbiologiche, per produrre quegli algoritmi matematici in grado di descrivere l’andamento di questo sistema con i tempi, le temperature e le modalità operative impiegate. Presso tre forni toscani individuati dal Consorzio di promozione e tutela del pane toscano a lievitazione naturale, sono stati, quindi, raccolti campioni della madre acida e dell’impasto a diversi stadi di panificazione per sottoporli ad analisi microbiologica e chimico composizionale al fine di determinare l’evoluzione nel tempo dei principali metaboliti coinvolti nei processi fermentativi (ac. D,L-lattico, ac. acetico ed etanolo).
A conferma di quanto riportato in letteratura, la quantità massima di metabolita accumulabile risulta più elevata nei campioni raccolti al centro dell’impasto rispetto a quelli provenienti dalla sua superficie. Infatti, come era facilmente prevedibile, la presenza dell’ossigeno tende ad inibire anche se in modo diversificato, i principali processi fermentativi portando ad una diversa distribuzione dei metaboliti nei campioni analizzati. Anche se le tecnologie e le madri acide utilizzate si diversificano in funzione del forno considerato, le costanti cinetiche connesse all’accumulo dei metaboliti con il tempo di lievitazione non sembrano diversificarsi sostanzialmente. Alla luce dei risultati ottenuti è possibile evidenziare come, adottando la stessa farina suggerita dal Consorzio, il tempo di lievitazione tenda ad annullare rendendole così meno evidenti, le pur notevoli differenze che intercorrono tra le madri a pasta acida utilizzate nei tre forni considerati. Sembrerebbe, quindi, possibile, adottando un'unica madre acida e una tecnologia di panificazione comune, ottenere nel tempo degli impasti sufficientemente simili, anche in forni collocati in zone differenti del territorio regionale e che utilizzano differenti acque di lavorazione