research

Le Comunità rurali nella Sardegna medievale (secoli XI-XV)

Abstract

«L’esperienza legislativa dei Giudicati e successivamente l’esperienza della legislazione nazionale […], sono state le esperienze giuridicamente più intense della Sardegna, anche se in modi diversi […], e sono più intimamente penetrate nelle consuetudini locali, determinandone spesso la crisi totale, altre volte consentendo, stimolando e condizionando sul lato esterno, quella storia, interna al progresso delle consuetudini originarie, che definisce il più vasto orizzonte culturale delle esperienze autonome e originarie della cultura sarda, pur nei suoi residui arcaici». Così Antonio Pigliaru, professore di Filosofia del diritto nell’Università di Sassari, poneva nel suo La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (1959) il problema del rapporto tra la tradizione consuetudinaria e il sistema giuridico codificato. Pigliaru, ispirandosi alle teorie di Santi Romano, di Widar Cesarini Sforza e di Giuseppe Capograssi sulla pluralità degli ordinamenti, riteneva che la società agro-pastorale sarda avesse elaborato un sistema di norme e al suo interno, un «codice della vendetta», strutturato come un ordinamento giuridico autonomo, che avrebbe regolato le relazioni tra gli individui prescindendo dalle istituzioni dominanti, molto spesso identificate con gli apparati repressivi dello Stato (tribunali, carceri, caserme dei carabinieri). In sostanza Pigliaru ipotizzava che le comunità rurali della Sardegna avessero conservato inalterato nel tempo un patrimonio consuetudinario che affondava le radici negli istituti della normativa statutaria trecentesca e in particolare nella Carta de Logu d’Arborea

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