research

La sedazione palliativa profonda e continua nell'imminenza della morte: le sette inquietudini del diritto.

Abstract

La sedazione profonda e continua nell’imminenza della morte rappresenta il last resort della palliazione: ne incarna, anzi, il misero fallimento, laddove l’ultima chance di eliminare la sofferenza è quella di annientare la coscienza di chi soffre. Potrebbe persino trattarsi, del resto, di una slow and soft eutanasia, e non solo per gli ésiti umani e relazionali che ne derivano, ma altresì per l’azione diretta eventualmente esercitata sulla durata della sopravvivenza del paziente – esclusa dalla quasi totalità della letteratura scientifica, ma espressamente contemplata, per esempio, dal legislatore francese del 2016. D’altro canto, per autodeterminarsi in merito all’attivazione di simile sedazione, chi sta morendo deve conoscere la verità, anche riguardo alla prognosi: la comunicazione fra medico e paziente non è qui inquinata dallo spauracchio dell’azione legale, ma mai come in quest’àmbito sarà la comunicazione orale, anche dilatata nel tempo, a formare il convincimento dell’assistito, con una condivisione lenta e graduale di informazioni, da una parte, e di preoccupazioni, dall’altra. Per converso, la scelta d’interrompere o di non iniziare trattamenti di sostegno vitale costituisce decisione distinta rispetto a quella riguardante l’attivazione della sedazione palliativa profonda e continua, benché frequentemente a questa associata. Infine, il sintomo refrattario può ben essere un existential distress e la patologia senz’altro irreversibile, ma la morte non imminente: in questo modo, l’individuale desiderio di morire della persona gravissimamente handicappata, che tale condizione non voglia e non possa più sostenere, potrebbe giustappunto rinvenire, in tale sedazione, un mero succedaneo dell’atto eutanasico

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