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A proposito di scienza e diritto: il «caso Stamina» (ma non solo). Libera scelta della cura e tutela della salute: là dove il dovere del medico s’arresta.

Abstract

È noto come il consenso del paziente debba essere preceduto, perché possa costituire veritiera espressione dell’autodeterminazione individuale, da un’informazione adeguata, prima di tutto vertente sui benefici ipotizzabili ed i rischi prevedibili del trattamento proposto. Orbene, nell’ambito della «vicenda Stamina», non sembra che il requisito del consenso informato possa ritenersi rispettato: perché il metodo Stamina è segreto e neppure i medici addetti alle infusioni erano a conoscenza di cosa, esattamente, si stava inoculando agli ammalati, ai quali erano fornite informazioni perlomeno distorte quanto all’efficacia della cura, alle eventuali conseguenze pregiudizievoli o agli ignoti effetti collaterali. Peraltro, se il medico deve rispettare la volontà dell’ammalato, il processo informativo a ciò funzionale può altresì culminare con il diniego del paziente, parimenti manifestazione della sua libertà di autodeterminazione, nonché espressione dell’esercizio del suo diritto alla salute. Oltretutto, il rispetto di una volontà negativa del paziente si pone in termini ancor più dirompenti laddove tale ossequio implichi una condotta attiva del medico. In particolare, la difficoltà risiede nell’affermare allo stesso tempo che una personale concezione della salute possa, da una parte, determinare il distacco di un sondino o lo spegnimento di un macchinario, cagionando più o meno direttamente il decesso del paziente, ma non sia sufficiente e non serva, dall’altra, ad ottenere una terapia fortemente voluta, addirittura agognata, in casi in cui, del resto, una cura propriamente detta neppure esiste – casi in cui soltanto esiste, invece, la certezza dell’exitus finale. La linea di demarcazione per superare tale impasse è segnata dal sapere, dalla diligenza professionali, che sempre devono supportare l’autodeterminazione dell’ammalato: il paziente acconsente al trattamento propostogli, o lo rifiuta, o ne richiede l’interruzione; non può, invece, imporre al personale sanitario l’esecuzione di una terapia che la scienza medica, per converso, non condivide. Il dovere dell’operatore sanitario di provvedere ad un determinato trattamento non risiede nel semplice fatto che sia l’ammalato a richiederlo; la posizione di garanzia retrocede dinanzi alla volontà negativa del paziente, ma non si trasforma e deforma sulla base di una volontà positiva che contraddica le leggi dell’arte. D’altronde, a fronte di un sistema sanitario dotato di risorse sempre più limitate, la richiesta di accedere a trattamenti in fase di sperimentazione o affatto sperimentati – sui quali, peraltro, sia possibile sollevare più d’un dubbio di validità scientifica – non solo riguarda l’ammissibilità di un’ingerenza delle personali istanze individuali (ma anche delle episodiche valutazioni d’opportunità giudiziarie o politiche) nell’àmbito della medicina e delle sue acquisizioni, ma pure presenta un problema di copertura da parte del nostro Servizio Sanitario Nazionale (ammesso che sia il pubblico, e non il privato, a dover sostenere questi esborsi) e di scelte di politica sanitaria «tragiche» e difficili da giustificare

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