La vicenda dello scambio di embrioni avvenuto all’ospedale Pertini di Roma contiene tutti gli ingredienti sui quali ci s’intende interrogare in queste pagine: la possibile scissione fra genitorialità genetica, biologica e sociale, di cui la scienza è sì la prima responsabile, ma della quale il diritto deve pure cominciare ad assumersi la responsabilità; l’inettitudine, peraltro, delle norme giuridiche esistenti a disciplinare, decifrare ed efficacemente risolvere tali nuovi eventi; il ruolo, infine, che il sistema giuridico deve svolgere, dinanzi ad una sempre maggior audacia della ricerca scientifica, quanto ad eventuali divieti ocaveat ovvero nel senso dell’individuazione di valori-guida in grado di sciogliere qualsivoglia nodo. Nel caso di specie, peraltro, ciò che non persuade è che lo yardstick impiegato sia stato davvero quello della felicità e del benessere dei gemelli, laddove la statuizione giudiziale pare per lo più condizionata dalla radicale impossibilità d’immaginare che i bambini, una volta emesso il primo vagito, potessero essere forzosamente allontanati dalla donna che li aveva appena partoriti. La gravissima brutalità ìnsita nell’atto stesso di separare quanto fino a pochi momenti prima costituiva un unico essere vivente ha con ogni probabilità impedito una serena ponderazione dell’opzione «famiglia genetica»: è in questo senso, quindi, che ad essere prediletto è stato il benessere della madre biologica, nelle cui viscere i bambini son divenuti tali. D’altro canto, si può dire che la decisione sullo scambio di embrioni sia per lo più giustificata dallo spauracchio dello slippery slope: madre è colei che partorisce, salvo voler spalancare le porte alle pratiche di maternità surrogata. Permane, in conclusione, il sospetto di una mancata, sufficiente ponderazione del caso romano, a cagione dell’esplosiva miscela di diverse contingenze: l’inefficienza, per una vicenda siffatta, della normativa; l’impossibilità di uno «scambio» (una sola gravidanza, non due); la temuta, eventualmente gravissima conflittualità fra integrità psicofisica femminile ed interesse del minore; la mancata attivazione di strumenti di mediazione ovvero di meccanismi, anche inediti, di «composizione» e comprensione dei sentimenti familiari coinvolti. L’interrogativo, pertanto, si pone amleticamente in questi termini: se l’imperio della norma e lo stigma dell’ordinamento siano tali da poter prevalere e altresì prevaricare il reale, tangibile interesse del minore della fattispecie concreta