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La curva dei salari in Italia.

Abstract

In generale, l’idea che l’ambito istituzionale influenzi profondamente il funzionamento dei mercati è saldamente radicata in letteratura. Per quanto riguarda il mercato del lavoro sono pionieristici i lavori teorici di Akerlof (1982), Bowles (1985), Williamson (1985), Stiglitz (1987), Solow (1990). Anche la letteratura empirica ha sempre più legato la performance del mercato del lavoro all’ambito istituzionale prevalente, come testimoniato, per esempio, dall’ampia letteratura sul “corporativismo”, da quella sull’“eurosclerosi” e da tutti quei lavori basati sulle istituzioni per spiegare la disoccupazione, i differenziali salariali, l’accumulazione di abilità (Blanchard, Wolfers, 2000). La significativa riforma istituzionale, avvenuta durante gli anni Novanta, ha influenzato profondamente il funzionamento del mercato del lavoro italiano, riducendo il grado di centralizzazione della contrattazione salariale, introducendo nuove tipologie di “lavoratori atipici” (come quelli impegnati in lavori “interinali”, lavori on call ecc.) e promuovendo sostanziali limitazioni salariali i cui effetti sembrano eccezionalmente di lunga durata . La dispersione salariale è fortemente aumentata, determinando un sostanziale aumento dell’ineguaglianza dei redditi. Nel periodo 1989-2000, inoltre, il ridimensionamento delle retribuzioni reali ha coinvolto non solo i lavoratori a tempo parziale e “atipici” ma anche quelli con contratti di tipo tradizionale. La caduta del potere d’acquisto dei salari (lordi) in Italia è in netta controtendenza rispetto a quanto accaduto all’Europa degli anni Novanta (ILO, 2000, p. 3). La variabilità territoriale dei tassi di disoccupazione, già in crescita negli anni Ottanta, è ulteriormente aumentata negli anni Novanta aggravando lo svantaggio delle aree meridionali Questa evoluzione deve essere ampiamente attribuita a una più alta dispersione dei tassi di occupazione (che approssimano la disponibilità delle opportunità di lavoro), mentre i divari territoriali nell’offerta di lavoro (approssimati dai tassi di attività) sono rimasti sostanzialmente immutati. Inoltre, la ristrutturazione industriale della metà degli anni Novanta ha prodotto una caduta drammatica dell’occupazione industriale, soprattutto nelle grandi imprese dove il lavoro è tutelato da una legislazione protezionistica. Tutto ciò ha causato un’accresciuta variabilità territoriale del “grado di tensione sul mercato del lavoro” (inteso come numero relativo di posti vacanti rispetto al numero di disoccupati), che è la variabile che guida il sistema economico verso un livello più elevato di rigidità istituzionale, se si accetta l’inversione del nesso di causalità tra protezione dell’occupazione e performance del mercato del lavoro operata da Saltari e Tilli (2004). Di fronte a questi cambiamenti, è appropriato rivalutare il potere esplicativo delle interpretazioni alternative della disoccupazione e degli squilibri regionali del mercato del lavoro. Principio ispiratore della riforma istituzionale (cfr. il Libro bianco del ministero del Lavoro) è stato rimuovere le rigidità del mercato del lavoro, la resistenza dei salari reali, gli insostenibili costi del licenziamento, l’indifendibile egualitarismo nella contrattazione salariale, tutte cause del perdurante problema della disoccupazione in Italia. L’attenzione è stata, quindi, essenzialmente rivolta a: a) l’incapacità dei prezzi dei fattori produttivi di riflettere scarsezze relative. La centralizzazione nazionale della contrattazione salariale, l’espansione del pubblico impiego e l’aumento dei trasferimenti di reddito alle famiglie avrebbero reso i salari insensibili alle differenze nelle produttività marginali del lavoro, riducendo la domanda di lavoro ; b) i vincoli legali e istituzionali imposti alle assunzioni e ai licenziamenti. Tali vincoli avrebbero impedito l’ottimale funzionamento del mercato del lavoro, riducendo la produttività del lavoro e favorendo l’uso di input alternativi (Bentolila, Bertola, 1990; Bertola, 1990, 2004). Entrambi i fattori (a e b) avrebbero agito prevalentemente nelle regioni meridionali determinando un più alto rapporto capitale-lavoro e più bassa occupazione e produzione. Alcune interpretazioni alternative (rif. in c, d, e, f, g), invece, proponevano e propongono oggi, con ancora maggiore insistenza, di investigare l’impatto sull’occupazione dell’innovazione, dei vincoli esistenti dal lato della domanda, e inoltre di volgere particolare attenzione a fattori come la competitività non di prezzo, il comportamento delle imprese rispetto alle innovazioni, alla tecnologia, al potenziamento delle capacità e alla specializzazione settoriale. Le radici teoriche ed empiriche di tali argomentazioni oltre a confutare quelle alternative già richiamate (a e b) sottolineano – in un’ottica di equilibrio parziale: c) che la severità di un sistema di protezione all’impiego è l’effetto e non la causa di un mercato del lavoro depresso (Saltari, Tilli, 2004); d) che nell’industria manifatturiera italiana e ancora di più in quella meridionale il lavoro temporaneo e le nuove forme di lavoro “atipico” sono fonte d’inefficienza e hanno un effetto negativo sulla produttività e sull’occupazione. La natura temporanea del contratto spinge almeno una delle parti in causa (datore di lavoro-lavoratore) a limitare il proprio investimento nella relazione d’impiego; soluzioni subottimali per entrambe le parti e per l’intera economia saranno il risultato delle scarse “dosi” di capitale umano investite nella relazione di impiego temporanea. La produttività delle imprese italiane, e ancora di più di quelle meridionali decresce al crescere della proporzione di addetti a tempo determinato impiegata. La relazione tra produttività e lavoro temporaneo si inverte quando l’attività di formazione professionale all’interno (contratti di formazione) o all’esterno dell’azienda (corsi di formazione) produce una “dose” non trascurabile di investimento in capitale umano. La propensione allo shirking dei lavoratori si riduce al crescere della serietà della relazione di impiego temporaneo e della probabilità che essa sia convertita in una relazione permanente. Prendendo in considerazione le interazioni del mercato del lavoro con gli altri mercati, tali interpretazioni alternative evidenziano, inoltre: e) il ruolo della “povertà tecnologica e istituzionale” (intendendo con ciò la sfavorevole specializzazione produttiva, e la scarsezza di alcuni input che hanno la natura di beni pubblici, l’innovazione tecnologica, l’accumulazione di capitale umano, infrastrutture, l’insufficiente certezza dei diritti di proprietà); e, dal punto di vista teorico, Autor, 2000; Ramey, Watson, 1997); f) il malfunzionamento del mercato del credito, che impone severi vincoli finanziari alle imprese (Giannola, 1999; Giannola, Sarno, 2004; Lopes, Netti, 2002, 2004); g) l’impatto occupazionale dei mutamenti tecnologici e dei vincoli alla domanda (Pini, Piacentini, 2000; Costabile, Papagni, 1998). Nel presente lavoro ci si propone di affrontare dal punto di vista empirico alcuni argomenti connessi principalmente alla prima interpretazione circa l’incapacità dei prezzi dei fattori produttivi di riflettere scarsezze relative (a), al fine di confutarla. In particolare si osserva che il giudizio che la letteratura empirica ha espresso sulla flessibilità salariale dell’economia italiana degli anni Novanta dipende anche (a monte) dalla banca dati utilizzata e (a valle) dai periodi e segmenti di indagine, dal grado di aggregazione delle osservazioni, dalle modalità con le quali rappresentare le caratteristiche strutturali delle aree di interesse. Inoltre, si dimostra l’esistenza di una “curva dei salari” (Blanchflower, Oswald, 1994) sulla base dei risultati di stime econometriche condotte con due differenti banche dati: l’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia e il data base del gruppo bancario Capitalia (ex Mediocredito Centrale) relativo a un campione di imprese dell’industria manifatturiera italiana

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