N. PISANESCHI

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Archivio della Ricerca - Università degli Studi di Siena

IL PROCESSO CIVILE IN TELECONFERENZA: BREVI NOTE SUL DIBATTITO IN CORSO    Torno a scrivere sulle udienze in teleconferenza (dopo un iniziale brevissimo commento a caldo) perché la novità del tema ha ingenerato, tra molti colleghi avvocati, un dibattito più acceso del previsto. Come spesso accade, le posizioni sono sembrate, prima facie, inconciliabili: a fronte di chi vedeva (e vede) nell’udienza in teleconferenza una sorta di naturale evoluzione tecnologica del processo, il fronte del no ha intravisto nella riforma una palese violazione del principio di oralità del processo, il rischio di una abdicazione delle proprie funzioni professionali, addirittura il pericolo di smarrire quella componente latamente umanistica che è propria (o dovrebbe essere propria) dell’avvocatura. Gli animi si sono accesi e sono stati chiamati in causa (dall’una e dall’altra parte) giuristi celebri (Chiovenda in particolare) e principi costituzionali (l’art. 24 e l’art. 111 Cost. principalmente). La passione, tuttavia, non sempre è buona consigliera. Personalmente, se dovessi tentare un esame di sintesi, direi che nessuna delle due parti ha torto ed entrambe hanno - almeno in parte - ragione. Provo quindi a spiegare quali a mio avviso siano degli equivoci in cui si è incorsi nonché quali siano i temi su cui a mio avviso varrebbe la pena, in futuro, soffermarsi con maggiore attenzione.  Punto di partenza della mia riflessione è che il nostro processo civile (l’unico di cui mi occupi), evidentemente fondato sulla domanda di parte, non è né, è conveniente che divenga, integralmente orale o integralmente scritto.  Nel processo si svolgono attività diverse che per funzione e modello logico utilizzato si differenziano spiccatamente tra loro.  Alcune attività, innanzitutto, sono così complesse da imporre la precisione della parola scritta. Sono quelle attività in cui, semplificando, la parte è chiamata a definire (o a chiarire) le proprie pretese sulla base di una specifica norma applicabile. In queste ipotesi compito dell’avvocato, per individuare il diritto azionabile (o azionato, nel caso del convenuto) è quello di comprendere la (o le) fattispecie normative entro le quali è sussumibile il fatto storico che ha originato la lesione. Il ragionamento che si è chiamati ad effettuare è complesso sia perché ogni evento della vita si compone di un numero infinito di circostanze minori non sempre rilevanti ai fini della causa, sia perché il medesimo fatto storico (proprio per la sua attitudine a venire scomposto in fatti od eventi diversi) integra frequentemente fattispecie differenti. La parte attrice è tenuta, se vuole vincere la causa, a provare i fatti della vita posti a fondamento del proprio diritto, ma cosa deve esattamente provare il soggetto coinvolto incolpevolmente in un incidente stradale? La velocità dell’auto, lo stato del manto stradale, la nebbia o il sole, magari; ma deve (esemplifico) descrivere in citazione - e poi provare - l’istante di panico che precede l’impatto? Alla domanda si può dare risposta solo a valle dell’individuazione della regola applicabile nel caso concreto, perché il titolo della domanda (e quindi il fatto storico che si deve prima descrivere e poi provare nel processo) rileva e deve essere provato nei soli limiti in cui ciò sia funzionale alla fattispecie azionata (e allora la descrizione del timor panico è lecita solo se con la domanda, ad esempio, si intende fare valere quale fattispecie risarcitoria l’istante di terrore che precede la morte).   Questa fortissima compenetrazione tra fatto e diritto che caratterizza molte fasi del rito civile, è, a mio avviso, una delle ragioni principali per cui l’oralità non può segnare qualsivoglia momento processuale.  In tutte quelle fasi in cui le parti od il giudice sono tenuti ad un giudizio di comparazione tra fatto e norma applicabile, la corretta individuazione della fattispecie e dei suoi elementi costitutivi impone (pena l’assistere ad un drammatico scollamento tra realtà fattuale e processuale) una precisione che necessita della parola scritta. Di più, la scrittura non solo è di supporto all’attore per individuare correttamente le fattispecie azionate ed i loro elementi costitutivi, ma è anche  è una condizione imprescindibile sia per una corretta decisione della causa da parte del giudice (tenuto appunto a determinare la fattispecie applicabile, ad individuarne gli elementi costitutivi, ed ad accertarsi se questi risultano provati in processo) sia per il rispetto del contraddittorio, perché è solo da una esatta comprensione della domanda che il convenuto puo’ fare discendere una propria corretta attività difensiva (difese in senso proprio ma anche eccezioni, accertamento di diritti incompatibili, etc.).  Non mi sembra quindi un caso se in quelle (non moltissime ipotesi) in cui il giudizio di comparazione di cui si tratta puo’ o deve svolgersi in udienza (penso, del tutto indicativamente, al caso in cui le parti optino per precisare a verbale le domande, eccezioni e conclusioni ex art. 183 c.p.c., all’udienza di precisazione delle conclusioni, o magari alla stessa discussione orale della causa ex art. 281 sexies c.p.c.), cio’ avviene, alternativamente, o a mero supporto di contributi scritti (le precisazione delle conclusioni) ovvero in circostanze in cui le stesse parti hanno ritenuto di potersi procedere in tale senso (le precisazioni a verbale ex art. 183 c.p.c.) ovverosia in circostanze particolari frequentemente riconducibili ad una minore complessità della controversia (la discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c.). In questi casi, almeno ad una primissima analisi, mi sembra che l’effettuazione dell’udienza in teleconferenza, proprio per le peculiarità ora ricordate, non dovrebbe comportare problemi irrisolvibili.  Vi sono però nel processo anche fasi o momenti processuali in cui, a ragione della diversa funzione svolta (principalmente l’accertamento dei fatti) il modello logico utilizzato dalle parti o dal giudice è strutturalmente meno complesso, ma la presenza fisica di specifici soggetti è funzionale alla decodifica di messaggi multicodice.  Si pensi all’escussione dei testimoni. Non vi sono regole assolute per determinare la loro attendibilità perché la loro eventuale inattendibilità puo’ derivare, in astratto, da comportamenti del tutto opposti (il non ricordare bene ovvero il ricordare “troppo bene”). In questi casi, tuttavia, il giudice usa per comprendere la sua semplice esperienza di vita, in cui rileva allo stesso modo la parola, la gestualità, la postura, gli intervalli utilizzati per riflettere. In questi casi – in relazione a circostanze in cui il ragionamento logico è di minore complessità, ma la presenza fisica, rilevante - il nostro legislatore ha previsto l’oralità. Che per inteso è quanto specificamente inteso da Chiovenda, che nei Principi legava specificamente l’istituto alla migliore comprensione dei fatti da parte del giudice. In relazione a tali fasi processuali, il problema delle udienze in teleconferenza effettivamente si pone, perché il modello prescelto non garantisce una decodifica di tutti quei “codici” che viceversa la presenza fisica permette. Quanto è grande il campo visuale della telecamera? permette di vedere il soggetto a campo intero o si scorge solamente il viso? E poi, chi garantisce che non esistano suggeritori occulti celati alla telecamera, o magari, al contrario, soggetti capaci di coartare la volontà del soggetto presente in teleconferenza? Allo stato, credo correttamente, il nostro legislatore si è mosso con attenzione. Ha quindi escluso dalle teleconferenze le prove testimoniali nonché il giuramento e l’audizione dei consulenti nell’ottica di sperimentare la novità in quei casi in cui solitamente la parte non è tenuta a rappresentare un fatto (eccezione ovvia la confessione) ma a manifestare una volontà (le varie ipotesi conciliative che si possono configurare nel corso del processo). Ed ha previsto, non a caso, che il giudice debba (ma ancora si ignora come) accertare che la volontà della parte non sia comunque coercita. E’ possibile, o auspicabile, immaginare una futura estensione della regola a fattispecie per adesso non ricomprese?  Questo, a mio avviso, è il tema ancora da studiare. Faccio alcuni esempi. In alcune ipotesi, come nel caso dell’udienza per il giuramento del consulente di ufficio, personalmente non vedo gravi problemi. E’ innegabile che la predisposizione del quesito è un elemento fondamentale per la buona riuscita della perizia e che come tale essa è abituale campo di scontro tra le parti, e tuttavia, posto e ricordato che il Consulente è innanzitutto ausiliario del giudice, mi sembra che i suggerimenti che gli avvocati dovessero proporre al giudice dovrebbero potere essere effettuati anche a distanza. In altri casi (e penso specificamente ai testimoni) direi che non è facile prevedere una regola omogenea, perché la stessa natura dei messaggi multicodice varia inevitabilmente da persona a persona. Sappiamo tutti, per esperienza, che la testimonianza di soggetti tecnici (penso a professionisti, amministratori societari, sindaci, etc.) è frequentemente più asettica di quella di altri soggetti che, per mestiere o attitudine personale, non sono abituati all’uso professionale della parola. Ne viene, sempre come esempio, che l’audizione in teleconferenza potrebbe facilmente essere concessa in quelle ipotesi in cui è attualmente permessa la testimonianza scritta, mentre magari potrebbe essere negata in tutte le altre ovvero eventualmente essere ammessa in quei soli casi in cui il giudice, considerate le particolarità del caso specifico, la dovesse eventualmente autorizzare.  Concludo con due osservazioni minimali.  Come detto in premessa, tra le accuse della smaterializzazione del processo vi è stata (anche se l’accusa ha riguardato sino ad adesso i processi penali) quello di privare la professione della sua connaturata impronta umanistica. Se l’accusa fosse fondata sarebbe in effetti gravissima perché è evidente che un diritto che non tenga conto della socialità che lo ha espresso deriva facilmente prima in tatticismi e poi in abusi. Tuttavia, tendo a dubitare che (si noti la stessa accusa è stata in passata rivolta ai grandi studi, accusati di una parcellizzazione esasperata del diritto) le capacità di decodifica dei fatti della vita (e del diritto che ne è regola ed espressione) dipendano dalla costanza della presenza fisica degli avvocati in Tribunale. Se pensassimo questo, credo che ridurremmo, e non eleveremmo, la natura della professione, perché la componente umanistica del mestiere si lega ad un qualcosa di più profondo della semplice partecipazione all’udienza: si lega ed è riconducibile al modello di pensiero cui siamo tenuti, agli studi, alle letture fatte, in definitiva a quel complesso di interessi che la nostra attitudine prima, e la professione poi, hanno acceso e sviluppato. Anche, si è detto che la smaterializzazione del processo allontanerebbe giudici ed avvocati, isolandoli sempre di più in posizioni autoreferenziali ed antagoniche. Qui il pericolo mi sembra maggiore, eppure tendo a pensare che l’incisività di espressione di qualsivoglia organo sia inversamente proporzionale alle volte in cui è chiamato a manifestarsi. Ne viene che se gli avvocati sapranno fare bene il loro lavoro - spogliandosi da molti degli orpelli che la tradizione alle volte equivocamente suggerisce - non sarà il numero di volte che siedono dinnanzi al giudice che determinerà la loro capacità di essere, e venire, ascoltati.               

Il processo civile in teleconferenza: brevi note sul dibattito in corso

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