Restauro e adattamento ex Casa del Fascio di Lissone

Abstract

La Casa del Fascio di Lissone (1938-1940) è un capolavoro di architettura narrativa e di spazi in sequenza dalla forza emozionante, basata su differenze e interstizi, sull’alternanza tra orizzontale e verticale, aperto e chiuso, senso del percorso e staticità della massa. L’edificio è nato a seguito di un concorso bandito dal Comune nella seconda metà degli anni Trenta, di cui risultarono vincitori Giuseppe Terragni e Antonio Carminati. Il progetto discende da una vastissima mole di schizzi dove l’idea di opporre una struttura orizzontale a una muta torre è un tema mai abbandonato. Lo sporto, l’ombra, la policromia, i telai di metallo, le pareti disposte a piegarsi a libro oppure a scorrere hanno fatto parte da sempre del linguaggio del maestro di Meda, testimoniando un vero disinteresse per un Modernismo teutonico improntato alla Nuova Oggettività. Nella fase di concezione del progetto, con Simona Ottieri e Dirk Cherchi, il responsabile unico del procedimento di restauro delle facciate che abbiamo portato avanti per conto del Comune, abbiamo esplorato l’edificio e siamo rimasti attoniti di fronte ai tanti segni di un’opera compiuta, poi rimaneggiata e parzialmente demolita. Non avevamo un metodo certo d’intervento, ma la costruzione risultava profondamente alterata e non tutte le modificazioni erano cancellabili, poiché molte erano dovute al lungo iter normativo di adeguamenti. Questi aggiornamenti furono necessari, sia nel corso del Novecento sia negli anni più recenti, per allineare la struttura alle complesse norme di funzionamento degli edifici pubblici. Non era inoltre facile ricostruire le azioni di modifica sovrapposte all’impianto originale. Alcune di esse furono dettate dalla necessità di adattare gli interni a spazio espositivo e sala cinematografico-teatrale a scala cittadina. L’immagine prevalente prima del nostro intervento, però, si condensava nelle forme dovute agli architetti Piero Ranzani e Lorenzo Forges Davanzati, che intervennero progettando una nuova scala e configurando un unico spazio. Con il loro intervento, scompare poi la raffinata soluzione originale a pareti rotanti. Decidemmo che forse non sarebbe neanche stato giusto concentrare la nostra azione su pochi elementi per noi fondamentali, al fine di restituire fascino e potenza all’edificio. Il ritrovamento di un montante color albicocca ha segnato poi l’inizio del singolare movimento di facciata scomparso. Dopo un interessante confronto con la Soprintendenza, abbiamo deciso di riproporre le alette del prospetto postico e, qui, abbiamo agito attraversoun sistema di setti di lastre di lamiera. Ciò ha permesso di inventare un nuovo dinamismo ispirato a quello che l’edificio originario riservava nell’alternanza tra massa e movimento nel gioco di ombre. Abbiamo immaginato questa facciata come un bassorilievo, una sorta di scenografia della memoria. Questa azione si identifica anche con una posizione culturale, una condizione necessaria a ravvivare la presenza architettonica del retro ridotto, prima del restauro, a una modestissima quinta scarnificata. Abbiamo poi restaurato la lunga persiana avvolgibile segnando, con un sottilissimo righino aggettante, il ritmo originario degli infissi. Contestualmente, abbiamo consolidato le tessere del mosaico chiaro e ripristinato la copertura della torre per evitare infiltrazioni attraverso un essenziale lucernario di vetro retinato trasparente. Lo stesso materiale è utilizzato anche per coprire l’ingresso al sacrario dove, per noi, le lettere dei morti fascisti distrutte dalla Resistenza restano come ombre plastiche. Abbiamo agito come al cospetto di un calco fossile e non abbiamo seguito un restauro filologico. Abbiamo preferito un’azione che avvicinasse l’edificio a una sua condizione verosimile, che tenesse conto di tutte le sue stratificazioni, in modo tale da dare potenza espressiva alla forma e ai colori

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