E poiché possedere delle qualità presuppone una certa soddisfazione di constatarle reali, è lecito prevedere
come a uno cui manchi il senso della realtà anche nei confronti di se stesso, possa un bel giorno capitare di
scoprire in sé l’uomo senza qualità. R. Musil (1930-1942), Der Mann ohne Eigenschaften, Rowohlt Verlag, Berlin
[tr. it. (1957), L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi: 14].
L’uomo senza qualità è per definizione l’uomo della possibilità: il Sé moderno caratterizzato dalla
sua incompiutezza, dall’elevato grado di libertà che non è possibile godere nell’esperienza attuale,
perché questa è innanzitutto una fatica da sopportare. È un’opera, quella di Musil, che racconta il
tramonto di un mondo giunto a un momento di sospensione nel quale l’eclissi di una tradizione
raggiunge il suo punto più drammatico con l’affermazione dell’assenza di senso (Mann, 1945 [1997)]
come Leitmotiv.
Quando noi curatori di questo volume Senza valore ci siamo incontrati per la prima volta davanti a
un caffè virtuale per discuterne (eravamo segregati ciascuno a casa propria durante il lockdown, in
una condizione di straniamento e rarefazione del senso di realtà) abbiamo tutti avvertito lo spirito
di Ulrich, il protagonista del romanzo di Musil, aleggiare e materializzarsi tra di noi come un
innominabile convitato di pietra. Non avevamo un’idea precisa del libro che avremmo progettato e
mandato alle stampe, ci accomunava però l’urgenza di dare voce alla sensazione di disagio e
inquietudine che proviamo oggi, a oltre cento anni dalle celebri conferenze di Weber sul “lavoro
dello spirito” (Cacciari 2020), in quanto professionisti della ricerca posti di fronte alla necessità di
elaborare il lutto dell’interruzione repentina di un quotidiano che avevamo imparato a considerare
normale, ma anche per questo stimolati a tornare a interrogarci sul senso della nostra istituzione di
riferimento, l’Università, che ci contiene per la maggior parte del tempo della nostra vita adulta (Sicca
2016; Altmanova, Cannavacciuolo, Ottaiano, Russo 2020) e di cui la svolta epocale della pandemia
ci interpella a ripensare e a mettere in discussione quanto vi si considera assunto o dato per scontato.
Quel medesimo smarrimento di senso che governa il mondo attorno a Ulrich è - già da anni -
comune esperienza quotidiana all’interno di ambienti di lavoro e di vita sempre più sottoposti a
forme di “coercive accountability” (Shore, Wright 2000), e dunque a quantificazione, valutazione
standardizzata, burocratizzazione e normalizzazione (Vidaillet 2013, Muller 2018): dalle istituzioni
fondamentali dove si fruisce la maggior parte dei beni e servizi per la sopravvivenza, quelle
essenziali, a quelle associate al tempo libero, quindi organizzazioni pubbliche e private ad ampio
spettro. E ovviamente anche all’Università che è parte integrante di tutte le società economicamente
sviluppate (Shore, Taitz 2010; Shore, Wright 2018).
Ebbene, anche a noi universitari, che stiamo sperimentando sulla nostra carne la mutazione
genetica dell’“homo academicus europeanus” (Normand, 2016) e che, esattamente come il
protagonista de L’uomo senza qualità, sentiamo di aver smarrito il senso della realtà in cui viviamo e
del sapere che vi produciamo, è accaduto un bel giorno, in un momento storico segnato dall’angoscia
del coronavirus, di scoprire in noi stessi i depositari malinconici di un sapere che siamo convinti
conti più di quanto si presti ad essere contato (Benneworth, Gulbrandsen, Hazelkorn 2016), un sapere
désouvré, senza qualità e senza valore, ma proprio per questo forse a più basso tasso di obsolescenza
e sempre verde, a dispetto delle mode contingenti, dell’imperialismo epistemico del mainstream e
delle velleità di dominio della cultura dominante che, in virtù del suo potere simbolico, tende ad
autopromuoversi a verità universale (Bourdieu e Wacquant, 1999 [2005]).
2. Attraversando il guado. Sperando non sia la sponda
Da qualche anno ormai il nostro mondo del sapere, dell’educazione e dell’editoria scientifica
nazionale è sotto “assedio” (Baert, Shipman 2005) da parte di un’agenzia di valutazione della qualità
dell’università (Borrelli 2015). Si tratta, com’è stato osservato, di un “sistema praticamente dispotico
e teoreticamente retrogrado” (Pievatolo 2017): dispotico in quanto utilizza criteri stabiliti da
un’autorità nominata dal governo e li impone alla comunità scientifica, e retrogrado perché tali
criteri si fondano sulla pretesa che presunti successi passati possano assicurarne anche in futuro.
Apparentemente si potrebbe pensare che si tratti soltanto di una questione organizzativa, ma in
realtà il ricorso alla valutazione premiale dell’università è molto più di questo. La discontinuità
rispetto al passato di questa forma di governo delle istituzioni epistemiche non potrebbe essere più
radicale, e la sua posta in gioco è infinitamente più alta di una semplice innovazione gestionale
(Borrelli, Giannone 2019). Segna la cattura del mondo della ricerca da parte di quella che Michel
Foucault ha descritto come la “tecnologia ambientale” praticata dal neoliberalismo (Foucault 2004
[2005: 214], fondata su un’antropologia che concepisce l’uomo come “responsive“ ed
“eminentemente governabile”, ossia “come colui che è possibile maneggiare, e che risponderà
sistematicamente alle modificazioni sistematiche che verranno introdotte artificialmente
nell’ambiente” (Foucault 2004 [2005: 220]). Il fatto è che, parlando di valutazione della ricerca,
il genitivo va inteso sempre nel senso di un genitivo oggettivo anche quando ad attuarla siano, come nelle
forme di autovalutazione, gli stessi ricercatori o studiosi: non è la ricerca che valuta se stessa – sulla base di un
sapere, spesso tacito, che è tutt’uno con l’esercizio del lavoro intellettuale – ma è la ricerca che è valutata, a
scopi di direzione e controllo in vista di obiettivi extrascientifici (Pinto 2012: 32-33).
Viviamo in un tempo che è stato variamente caratterizzato come l’epoca della “società dei controlli”
(Power 1997), della “società della valutazione” (Dahler-Larsen 2001 [2012]), del “governo attraverso
i numeri” (Supiot 2015; Shore, Wright 2015) o del “potere delle metriche” (Beer 2016), tutte
espressioni del modus operandi di uno “Stato valutativo” (Neave 2012) che, in “perfetto Stato”
neoliberale (Giannone 2019; Mozzana 2019), non si limita più a tracciare i confini dei comportamenti
legittimi in virtù della legge, ma si spinge – non diversamente da come oggi opera in Cina, su più
ampio raggio, il sistema di credito sociale (Pieranni 2020) - fino a incentivare le pratiche che esso
stesso stabilisce come eccellenti attraverso la valutazione ossia, in ultima analisi, attraverso un
“potere spacciato per sapere” (Zarka 2009 [2019]) che mette a valore e a profitto il sapere
tipizzandolo, misurandolo, classificandolo e gerarchizzandolo. Un sistema che, di fatto, sta
introducendo disservizi se non addirittura patologie corruttive nel sistema della conoscenza (Shore
2018).
A scanso di equivoci ci corre l’obbligo di dichiararlo subito. Quello che avete tra le mani è un libro
del tutto inutile, un testo che non fa testo in base alle regole del sistema di valutazione della ricerca.
Un libro inutile, perché si tratta di una curatela di volume collettaneo, un nobile genere editoriale
ormai decaduto, che non viene più riconosciuto ed è sempre meno praticato. Inutile, inoltre, perché
ospita contributi di studiosi di diverse discipline, in un momento in cui interdisciplinarità e
transdisciplinarità sono disincentivate e messe al bando dai criteri di valutazione. E, soprattutto,
inutile perché raccoglie una serie di contributi “indisciplinati” che sono stati respinti dalle riviste
accreditate, oppure che sono stati concepiti deliberatamente al di fuori dei crismi correnti della
“scientificità” e che, quindi, non avrebbero potuto essere accettati dall’anonimo valutatore di turno,
nell’ambito di quella pratica istituzionalizzata di prostituzione intellettuale che è diventata ormai la
peer review (Frey 2003). E ancora inutile perché, contrariamente al modo di scrivere di oggi, non arriva
e non vuole arrivare a delle conclusioni, nella convinzione che un libro è un oggetto culturale solo
se si dà come opera aperta, in divenire e in dialogo costante con i suoi lettori, in modo che il suo
senso sia sempre inattuale e di là da venire. Un libro inutile, dunque, e senza valore che
ciononostante abbiamo voluto realizzare a ogni costo, perché convinti di quella che Nuccio Ordine
ha definito l’“utilità dell’inutile”, cioè l’utilità paradossale di quelle forme di sapere fine a se stesse,
le quali “proprio per la loro natura gratuita e disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e
commerciale – possono avere un ruolo fondamentale nella coltivazione dello spirito e nella crescita
civile e culturale dell’umanità” (Ordine 2013: 7).
A questo punto sarà chiara ai lettori la filosofia che ispira questo libro. Alla mortificante “cultura in
scatola” (Bertoni 2016) confezionata dalla “tirannia della valutazione” (del Rey 2013 [2018]),
opponiamo la passione del conoscere come paidéia (παιδεία) di autonomia, creatività e gioia.
Auspichiamo un sollecito e salutare “ritorno al senso” (Alvesson, Gabriel, Paulsen 2017) perché la
ricerca riprenda ad avere qualcosa di meno triste e di più significativo di cui occuparsi per il bene
pubblico, che non raggiungere artificiose soglie di produttività fine a se stessa, lasciarsi catturare
dalla logica della neoliberalizzazione (Giroux 2014) e intrappolare dalle stolide quanto stucchevoli
“griglie” della burocrazia valutativa (Cassin 2014). Peroriamo il riscatto dell’università dalle
“rovine” in cui è precipitata negli ultimi trenta anni (Readings 1996, Dupont 2014), per esempio
dall’ipertrofia delle funzioni amministrative e manageriali a scapito di quelle didattiche e di ricerca
(Ginsberg 2011), o anche dalla moltiplicazione delle tecniche di gestione aziendale che avrebbero
dovuto assicurare la qualità e migliorare il posizionamento competitivo degli atenei, e che invece di
fatto burocratizzano il lavoro accademico e “fanno sì che si passi un sacco di tempo a cercare di
vendere qualcosa agli altri” trasformando le università in “marchi da vendere a potenziali studenti
e finanziatori” (Graeber 2015 [2016: 116-117]). Siamo convinti che occorra uscire dalla spirale
perversa di matrice anglosassone del “consumismo accademico” (Williams 2013), per cui
l’apprendimento da parte degli studenti si è ormai trasformato anche alle nostre latitudini in una
frenetica e irriflessa corsa all’accumulazione di “crediti” formativi (le parole sono importanti, diceva
Nanni Moretti in un celebre film, e chi parla male pensa e vive male). Sosteniamo altresì la necessità
di smettere di considerare le università come fossero aziende che operano sul mercato dell’istruzione
(Connell 2019; Borrelli, Gavrila, Spanò, Stazio 2019), e dunque di rimetterci dalla “malattia” del
managerialismo che ha colpito la ricerca (de Gaulejac 2012), di “sospendere la competizione”
(Bonato 2015), spegnere quei “motori di ansia” (Espeland, Sauder 2016) che sono i ranking
accademici (Hazelkorn 2011 [2015]) e disinfiammare l’esasperazione coatta e artificiosa del lavoro di
ricerca (Berg e Seeber 2016), stimolata dal doping della valutazione e della quantificazione del sé
(Lupton 2016; Lupton, Mewburn, Thompson 2018). Invitiamo pertanto a cessare di “pavoneggiarci”
sulla base di una visione “impattocentrica” della ricerca (Mauro 2017), e a sbarazzarci della grottesca
inflazione di eccellenze autoproclamate che oggi paiono diventate un must (sì, necessariamente
utilizziamo un verbo modale - tradizionalmente si chiamavano verbi servili - della lingua inglese) a
tutti i livelli nell’ambiente accademico. Promuoviamo, per contro, l’éthos (proprio l’ἦθος come
“dimora” del sé, prima ancora che l’εθος come “costume di vita”) di una ineccellenza felice che la
faccia finita una volta per tutte sia con la “vanità” che con l’“aspirazione all’eccellenza”, vere e
proprie tare che affliggono oggi la nostra università - e, diremmo, questa contemporaneità che ci è
capitata in sorte, con i suoi “miti razionalizzati” e istituzionalizzati della qualità (Meyer, Rowan
1977). Tare morali, vanità e aspirazione all’eccellenza, delle quali Nietzsche ebbe buon gioco a
denunciare le radici rispettivamente nella servile suscettibilità alle impressioni altrui (Nietzsche 1886
[1977: § 261]) e nell’istinto morboso a far sì che gli altri soffrano di noi (Nietzsche 1881 [1978: § 113]).
Del resto, l’eccellenza, se ve n’è una, non può che essere intesa come buona qualità diffusa in tutti i
segmenti e le strutture che in un paese si occupano di ricerca e formazione, e non certo nei termini
dell’incentivazione di presunti picchi di qualità finanziati con logiche premiali a danno
dell’ecosistema complessivo della ricerca. Come ha osservato il linguista Raffaele Simone (2012), “in
un sistema pubblico non si devono identificare i migliori; i migliori si devono creare. A questo scopo,
l’università deve proporre l’offerta migliore perché tutti possano essere migliori, anche se si sa che
non tutti lo saranno, e deve poi occuparsi in modo serio dei non-migliori e dei tanti che, pur avendo
vocazione, sono sviati e confusi da una struttura scoordinata e di qualità instabile”. Ecco perché
critichiamo risolutamente una valutazione che individui e premi la ricerca che si presume di
maggiore qualità alla luce dei valori e dei saperi comunemente riconosciuti, e invochiamo invece
una trasvalutazione dei valori che lasci spazio a pratiche di libertà affinché la ricerca venga gestita “con
il minimo possibile di dominio” (Foucault 1984 [1994: 291]) e vi si possano far valere le ragioni di un
sapere senza valore, potenzialmente generativo di nuovi e magari imponderabili valori.
Sosteniamo, infine, che occorra superare l’idea per cui l’aggettivo “scientifico” debba sempre
accompagnare ogni forma di produzione di sapere e di “ricerca”, fino a diventare una sorta di
idolatrico lasciapassare nel circuito della conoscenza accreditata. Si pensi ad esempio alla
trasformazione degli studi letterari in “scienze umanistiche”, quasi che al di fuori delle “scienze”
non vi sia sapere ammissibile. È evidentemente una questione epistemologica (che, data la sua
indecidibilità, tende sempre più oggi ad essere affrontata e risolta nei termini surrogatori e sbrigativi
di una questione bibliometrica) con chiare ricadute in termini di metodologia della ricerca e della
convivenza e, in ultima analisi, di pratiche sociali (Feyerabend 1975 [1979]). Lo chiarisce, ad esempio
nell’ambito degli studi organizzativi, il concetto di “etichette” (label), adottato da Barbara
Czarniawska (1993), che le considera alla stregua di strumenti di controllo, di artefatti che
contribuiscono a definire confini e, dunque, identità. L’approccio scientifico (e persino quello
scientificista, quindi di una scienza a tutti i costi) è stato dirompente e rassicurante in termini di salute
pubblica e privata e di aspettative sulla lunghezza della vita, fino a egemonizzare ogni altra forma
di conoscenza a partire dal XVII secolo, con la rivoluzione galileiana (Sicca, 2017). La scienza
moderna – è stato osservato - si basa su una visione del mondo unitaria e compatta, fondata sulla
ricerca di un invisibile semplice al di là della complessità dei fenomeni e sull’assunto della riduzione
dell’eterogeneo all’omogeneo, che mira a “identificare un nucleo ristretto di presupposti e di leggi,
tramite i quali poter accedere alle molteplici scale spaziali e temporali del cosmo, non importa
quanto lontane dalla collocazione dell’osservatore umano nella sua limitazione spaziotemporale”
(Ceruti 2018: 93). Si tratta di un radicale salto paradigmatico nell’ordine epistemico rispetto a
millenarie, tradizionali, forme di conoscenza (Foucault 1966). Il che, dal canto nostro, ci autorizza a
nutrire dubbi sull’opportunità di includere nel concetto di scienza qualunque disciplina, per
esempio la letteratura, la musica, le arti figurative, ma anche la sociologia e l’economia che –
rinunciando a corse in avanti e conservando l’etimologia – andrebbero ancora oggi, in questo
complicato passaggio di millennio, rapportate a fonti e radici che affondano in antiche forme di
saperi “pre-scientifici”. “Scienza” non è, à la Vico, qualunque cosa ambisca a raggiungere una
conoscenza auspicabilmente oggettiva, adattabile e, magari, verificabile e condivisibile. Anche
perché oggettività, adattabilità e verificabilità non sono di fatto proprio la stessa cosa se ci si occupa
di economia, di fisica o chimica, di musica, di studi organizzativi, etc. A noi pare, invece, che “scienza”
sia un modo (potente) di produrre conoscenza all’interno di un certo a priori storico, ma siamo
convinti che anche altre forme di saperi e di conoscenze (non scientifiche e tuttavia non meno
rigorose e rilevanti per l’esistenza umana) hanno ancora molto da dire con efficacia e forza
interpretativa.
Resta invece - attraversando il guado e sperando che quella che stiamo vivendo in questi anni non
sia la sponda - la possibilità di spiegare l’attuale corsa generalizzata ad attribuirsi il côtédi scienza
in ragione di comprensibili esigenze di legittimazione nei processi di acquisizione di finanziamenti
in un mondo rassicurato dalle grandi scoperte scientifiche (chissà se la vulnerabilità emersa nel 2020
con un salto di specie dall’animale non umano a noi invertirà o rafforzerà la rotta), quindi
rassicurante, in ragione di considerazioni di sociologia della conoscenza, di gestione e contenimento
di ataviche ansie collettive e, in ultima analisi, di retorica del linguaggio accademico.
Da questa impostazione deriva la contrapposizione della logica della dimostrazione (utile) a ciò che
non è dimostrabile (quindi inutile), e di conseguenza da escludere dai procedimenti delle scienze.
Eppure, nella struttura delle argomentazioni esistono (nella storia del pensiero, ma anche nella stessa
storia della scienza) feconde alternative al dimostrare, certo meno rassicuranti, come ad esempio la
logica della narrazione che pure ha realizzato non pochi risultati per il progredire della conoscenza. Se
le epistemologie orientate alla spiegazione si basano sulla razionalità cognitiva con l’obiettivo di
puntualizzare, di separare, individualizzare, comparare, calcolare e dare valutazioni secondo la
scansione vero/falso, la modalità narrativa privilegia invece la strategia della comprensione e procede
orientandosi negli “stati nervosi” del presente (Davies 2018) attraverso una pluralità di ricostruzioni
possibili, e utilizzando come criterio di validazione la plausibilità, piuttosto che la verità (Sicca, 2020).
3. Lo studio è una passione inutile
Quando si dice di qualcosa che è senza prezzo e senza valore, si può alludere alla sua assenza di
pregio all’interno di un certo sistema di valori, ma verosimilmente anche alla eccedenza e
inestimabilità del suo pregio rispetto all’ordine attuale delle quotazioni. Dunque, lo statuto del senza
valore può riguardare parimenti ciò che non ha valore e ciò che invece ne ha troppo per poter essere
apprezzato nelle condizioni date. In entrambi i casi l’oggetto percepito come senza valore si sottrae
a ogni misura del valore corrente, sia che non possa essere misurato per difetto di pregio sia che, al
contrario, risulti letteralmente s-misurato per eccesso di pregio. Il senza valore è dunque lo spazio
inesplorato in cui gli opposti si incontrano fino a coincidere, facendo sì che si confondano il più
povero e il più ricco, il più umile e il più pregiato. Questo principio di indistinzione rappresenta
quanto di più alieno e inquietante (e quindi assolutamente da scongiurare) per la valutazione, la cui
missione sociale è al contrario fondare l‘ordine del senso costituito sulla chiarezza delle distinzioni
e dei rapporti di valore. Ma prima o poi ogni sistema di valutazione si imbatte nella sua ineludibile
aporia: o assolve alle sue funzioni rimuovendo di aver rimosso ciò che sfugge alla sua misura, o si
delegittima e implode di fronte alla incoercibile dismisura del senza valore. È il paradosso di ogni
velleità di accountability, che rende visibile nella misura in cui rende invisibile, proprio perché fonda
il valore della trasparenza sull’intrasparenza dei valori. Ecco allora che ciò che per il sistema di
valutazione è senza valore assume per noi l’inestimabile valore, se non altro, di mostrare quanto
sfugge ai suoi radar e di denunciare l’abisso originario di opacità e di hybris su cui esso
costitutivamente si fonda.
D’altra parte, si sa, lo statuto dell’equilibrio economico generale caro al pensiero neoclassico si
fonda sull’incontro tra la funzione di domanda sottesa dall’utilità marginale decrescente che
interseca l’offerta, con rendimenti di scala crescenti quando la capacità produttiva è sottoutilizzata.
In altra parole, ciò significa che la prima mela è più utile della seconda, che questa a sua volta è più
utile della terza, e così via. Ma questa prospettiva di misurazione del valore mostra tutti i suoi limiti
nel momento in cui, invece della mela, la posta in gioco è la conoscenza nel contesto della ricerca
accademica. La conoscenza, infatti, è qualcosa che più se ne ha, meno ci si sente sazi e sfamati. Anzi,
a dirla tutta, la conoscenza è proprio qualcosa che affama. Una suggestiva immagine proposta dallo
scrittore George Steiner riconduce l’assiomatica del conoscere alla nostra ancestrale natura di
implacabili inseguitori e cacciatori: in quanto soggetti di conoscenza ci sentiamo obbligati ad aprire,
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