Dellantonio, Sara

Mininni, Giuseppe

Pastore, Luigi

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Sara Dellantonio

Giuseppe Mininni

Luigi Pastore

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Alterità e convivenza tra pregiudizio e nuove forme di consapevolezza

Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia (Università degli Studi di Bari)

  RIVISTA INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA E PSICOLOGIA DOI: 10.4453/rifp.2011.0011 ISSN 2039-4667, E-ISSN 2239-2629  Vol. 2 (2011), n. 2, pp. 80-83   Alterità e convivenza tra pregiudizio  e nuove forme di consapevolezza  Sara Dellantonio, Giuseppe Mininni, Luigi Pastore             GUERRE, CRISI, VIOLENZA, DISASTRI NA-TURALI prevedibili e arginabili hanno abituato ormai da tempo immemore l’opinione pubbli-ca all’ascolto di lunghi prontuari di misure e provvedimenti che dovremmo adottare o di azioni che dovremmo intraprendere. Talvolta – solitamente in coda, poco prima di volgere alla conclusione – questi prontuari annovera-no l’esigenza di promuovere la ricerca scienti-fica, più raramente quella di dare spazio alla “cultura”. Quasi mai si fa menzione, invece, del bisogno di “teoria” quale guida indispen-sabile per la prassi. L’idea stessa del “fare teo-ria” è indebitamente associata oggi ad atteg-giamenti ritenuti sconvenienti e poco utili. La “teoria” è stata sostituita da una prassi che si suppone capace di orientarsi da sé, di trovare a tentoni i propri percorsi, recuperando l’as-sestamento dopo aver incocciato negli ostacoli in cui di volta in volta ci si imbatte lungo il cammino. Aggiungere il bisogno di teoria alla nostra lista significherebbe ammettere – per lo meno in linea di principio – l’inconsistenza del-le strategie orientate semplicemente al “fare”. Alla ricerca si chiedono soprattutto appli-cazioni e soluzioni pratiche per problemi con-creti. I settori o le discipline che si occupano di “teoria” – in particolare di teoria “umanistica” – sono guardati con sospetto, quasi fossero là solo a disturbare col loro carico ideologico il corso perfettissimo di un’azione autosufficien-te e pragmaticamente orientata. Il problema non sembra essere quello di capire cosa sia opportuno fare – quali siano le pieghe e le in-sidie nascoste di una situazione, quali gli svi-luppi e i risvolti futuri delle varie scelte possi-bili e quali, infine, gli obiettivi che ci propo-niamo di perseguire: i beneficiari e le vittime delle nostre decisioni. Ciò che si vuole soprattutto e più di tutto è Editoriale  Questo fascicolo monografico è stato in parte realizzato grazie a un contributo erogato all’in-terno del programma di ricerca Concetti e significati. Un’ipotesi di determinismo linguistico in chiave cognitiva finanziato dalla Provincia Autonoma di Trento nell’ambito del Bando Post-Doc PAT 2007. Si desidera inoltre rivolgere un particolare ringraziamento per la disponibilità mostra-ta verso la realizzazione di questo progetto editoriale a Sarhan Dhouib, Raúl Fornet-Betancourt, Hans-Jörg Sandkühler e alla redazione della rivista Concordia. Internationale Zeitschrift für in-terkulturelle Philosophie.  Attribution - Noncommercial - No Derivative Works 3.0  Alterità e convivenza  81 “andare avanti”, procedere a vista sempre nella stessa direzione, nella speranza che questo basti a lasciarsi la selva dietro le spalle. La “teoria” arriva casomai – se di teoria ancora di tratta – solo più tardi, sotto forma di storytelling, come cioè una sorta di narrazione in genere posticcia che serve all’affermazione dei propri valori e a conferire senso generale all’esistente, giustifi-candolo per quello che è. Riaffermare il bisogno di teoria all’interno delle società contemporanee è quanto mai complesso, poiché complesse sono le dinami-che che governano gli equilibri sociali, oltre che gli strumenti sviluppati dalle varie disci-pline per afferrarne i frammenti. Tuttavia, le difficoltà presentate dall’oggetto di studio e dalla molteplicità degli strumenti disponibili per analizzarlo non possono essere d’ostacolo alla crescita teorica, ma devono piuttosto spro-nare all’ideazione di teorie sempre più articola-te e potenti. L’elevatissimo grado di specializzazione che si riscontra oggi nella scienza è una rispo-sta alla complessità dei fenomeni; ma la teoria è nemica della frammentazione e lo sviluppo di teorie potenti dipende dalla capacità di por-tare a sintesi le parti, unificandole all’interno di un’articolazione capace di restituire ai fe-nomeni il loro senso complessivo. Così intesa, la “teoria” non costituisce una rappresenta-zione astratta del reale esente da ogni applica-zione, o un strumento di pura meditazione in-tellettuale, ma può fornire una mappa atten-dibile del presente e del futuro, permettendoci di scegliere consapevolmente di volta in volta le mosse sulla scacchiera in funzione di quello che è legittimo aspettarsi. Nessuna disciplina può ormai esclusiva-mente fare da sé: la “teoria” – nel senso più nobile del termine, quale sistema capace di rendere conto di veri, interi pezzi di realtà, nella loro articolazione e complessità esente da semplificazioni da laboratorio – è necessaria-mente un’impresa collettiva alla quale disci-pline diverse sono chiamate a contribuire. È in questo spirito che nasce l’idea di un numero speciale di Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia, in cui studiosi di aree diverse – psico-logi sociali e filosofi di diversa provenienza e for-mazione – offrono il loro contributo a un pro-getto comune: far luce sulle dinamiche generali che regolano i rapporti fra gruppi socio-cultu-rali differenti e aiutarsi nella comprensione dei rapporti che in questo specifico periodo storico intercorrono tra il mondo occidentale e quello non occidentale, tra i cosiddetti centri e le co-siddette periferie del sistema-mondo. Questa unione di forze non segna certa-mente ancora la ripresa di una teorizzazione sistematica e unitaria; è tuttavia un primo pas-so e una sorta di “segnavia” che trova la pro-pria ragion d’essere nel delineare l’esigenza di una necessaria compartecipazione tra discipli-ne diverse ai fini dell’inquadramento dei com-plessi problemi che caratterizzano la condizio-ne umana, come quello del rapporto tra identi-tà e alterità rispetto alla possibilità di una paci-fica, rispettosa e dignitosa convivenza. Questo fascicolo è articolato in due sezioni principali: una prima riflette sui modi in cui identità e alterità vengono percepite e pensate, mentre una seconda ospita contributi e rifles-sioni che mirano a ridisegnare la mappa con-cettuale cui è consegnata la tracciabilità del-l’identità della cultura occidentale nei suoi rap-porti con l’altro da sé, nello specifico la cultura arabo-islamica. Per quanto concerne la prima parte, a due contributi di natura filosofica è stato conse-gnato il compito di mettere in discussione due importanti luoghi comuni della contempora-neità, e cioè che, per un verso, le radici della morale vadano rintracciate nella cultura e che, per altro verso, l’idea di libertà, ritenuta pa-trimonio quasi unico della tradizione occiden-tale moderna, abbia in realtà un riferimento a un “oggetto” stabile, certo e condiviso. Ripercorrendo le vicende del “caso-Eich-mann” secondo le descrizioni di Hannah Arendt in La banalità del male, Bethania Assy invita a riflettere su come l’esercizio della ragione e del-le capacità critiche individuali siano compo-nenti indispensabili per assicurare il consegui-mento di atteggiamenti autenticamente morali, e come, per converso, l’adesione acritica a mo-delli culturali predati – qualunque essi siano – Dellantonio, Mininni, Pastore  82 comporti sempre il pericolo di una cieca accon-discendenza a valori, principi e azioni contrarie a un comune senso di umanità. Discutendo della nozione di “libertà”, Sara Dellantonio e Luigi Pastore rimarcano come questo concetto non descriva, come comune-mente si ritiene, un valore condiviso e un pun-to fermo nel quale tutti credono e sul quale le opinioni di tutti convergono, ma come esso assuma piuttosto connotazioni diverse, perfi-no contrapposte fra loro, a seconda dell’ideo-logia cui si associa. Gli autori prendono le mosse da queste divergenze per investigare quale possa essere l’origine cognitiva di questo concetto e se sia possibile identificare rispetto a esso un nucleo universalmente condiviso. Pur rintracciando una comune radice cogniti-va del concetto, gli autori giungono alla con-clusione che questa non possa in nessun modo bastare a fondare un ideale di libertà univer-salmente condiviso e che il genere umano sia condannato a infiammarsi per valori che, sep-pur indicati dalla stessa parola, non hanno nulla a che fare gli uni con gli altri, quando addirittu-ra non si contraddicono reciprocamente. Ampia parte della prima sezione di questo fascicolo ospita analisi provenienti dal campo della psicologia sociale, cui è affidato il compito di descrivere quei complessi fenomeni che ca-ratterizzano le relazioni che individui e gruppi trattengono con l’altro da sé.  Bruno Mazzara affronta il tema del pre-giudizio, inquadrandolo all’interno di una pro-spettiva complessa, che coniuga la ricerca psi-cologica con quella filosofica, riflettendo sulla nozione stessa di conoscenza e sul ruolo che la dimensione culturale e l’interazione socio-co-municativa giocano rispetto alla generazione e alla validazione del sapere. Maria Paola Paladino e Jerome Vaes discu-tono il tema della percezione della “umanità” e i fenomeni correlati della umanizzazione, de-umanizzazione e infra-umanizzazione, che ca-ratterizzano diverse tipologie di relazioni tra gruppi. L’umanizzazione va di pari passo con l’apprezzamento dei membri di un gruppo che – in quanto umani – meritano considerazione morale e rispetto. La de-umanizzazione e l’in-fra-umanizzazione (intesa come una forma di sottovalutazione dell’umanità di qualcuno ri-spetto a quella di qualcun altro) sono invece at-teggiamenti che squalificano l’altro nella sua umanità e legittimano pertanto la deresponsa-bilizzazione morale, l’abbandono e la violenza. Si propone qui un’analisi di diversi casi e moda-lità di de-umanizzazione e infra-umanizzazio-ne, concernenti tipologie di gruppo diverse, al fine di chiarire quando questi fenomeni tendo-no a manifestarsi, come si riconoscono, cosa può contribuire a fomentarli o a tenerli a freno, oltre che quali sono i soggetti o i gruppi mag-giormente a rischio di caderne vittima. Marcella Ravenna riprende le tematiche arendtiane legate alla nozione di “banalità del male”, illustrando le ragioni che talvolta spin-gono individui almeno apparentemente “or-dinari” a compiere atti “mostruosi” verso altri esseri umani. A questo proposito l’autrice evi-denzia come le spiegazioni classiche dell’oblio morale basate soprattutto sulla routinizzazio-ne delle procedure di perpetrazione della vio-lenza e sulla tendenza ad obbedire all’autorità non spieghino tutti gli aspetti che caratteriz-zano le atrocità di massa cui la storia ci ha po-sto di fronte. La ricerca suggerisce che queste debbano essere integrate da strumenti esplica-tivi ulteriori, capaci di cogliere e chiarire fra l’altro come valori negativi possano propagarsi repentinamente ed essere interiorizzati in mi-sura massiccia da interi corpi sociali e perché nelle situazioni di conflitto nei gradini più bas-si delle gerarchie di potere prendano piede at-teggiamenti sadici e crudeli.  Il contributo di Giovanna Leone esplora la memoria storica di un gruppo in relazione alla possibilità della riconciliazione con altri grup-pi, con i quali in passato è entrato in conflitto, rendendosi protagonista o cadendo vittima di violenze. La questione oggetto di questa ricer-ca concerne le strategie di rielaborazione della memoria storica che meglio possono contri-buire, da una parte, a debellare quei residui di rancore, diffidenza e ostilità, strascichi di con-flittualità e propaganda bellicista; per altro verso ad allontanare la possibilità che remine-scenze collettive quiescenti siano riattivate per Alterità e convivenza  83 la realizzazione di nuove aggressioni. La ricerca descrive anzitutto i passaggi che gruppi vittima e gruppi perpetratori di violenza devono attra-versare per elaborare gli eventi e ridefinire il proprio ruolo e la propria identità ai fini di una riconciliazione col nemico e chiarisce quali so-no le modificazioni interne al gruppo, alle sue dinamiche e alla sua identità che permettono un’integrazione positiva del ricordo. La seconda parte di questo fascicolo ospita diversi contributi e riflessioni proposti da auto-ri di origine e formazione mediorientale che di-scutono il rapporto che l’Occidente trattiene con il mondo non occidentale, con particolare attenzione a quello arabo-islamico. Questa par-te del fascicolo è stata realizzata grazie alla pre-ziosa collaborazione con Sarhan Dhouib, alla cui presentazione si rimanda per una dettagliata illustrazione del contenuto di questi contributi. Gli studi proposti in questa sezione riflet-tono criticamente sui rapporti fra i centri e le periferie del sistema-mondo. Al centro dell’at-tenzione si pongono, fra l’altro, i limiti specifi-ci delle culture elaborate nei centri e nelle peri-ferie e la ricerca di forme e princípi che renda-no possibile una coesistenza pacifica. Oltre che raccontare l’orizzonte culturale del mondo non occidentale – nello specifico del mondo arabo-musulmano – da un vertice osservativo alternativo a quello occidentale cui siamo abi-tuati, queste ricerche si sforzano anche di tracciare importanti linee di indagine per la costruzione di uno sguardo di tipo nuovo da cui poter pensare le relazioni interculturali tra centri e periferie nelle loro costanti trasforma-zioni. Esse affrontano questioni quali il biso-gno dei Paesi del Terzo Mondo di costituire un’identità propria e indipendente da quella imposta dall’Occidente, le condizioni per rea-lizzare una convivenza nel rispetto dei diritti umani libera da violenza, razzismo e neo-colonizzazione, le nuove tendenze del femmi-nismo nel mondo islamico, il rapporto fra ri-forma e sovversione nelle dinamiche di svi-luppo dei Paesi arabi, la difesa dei Diritti Umani e la lotta per il razionalismo quale so-luzione per il superamento della situazione di stallo in cui si trovano oggi i Paesi islamici. Dal processo contro Eichmann la Arendt suggerisce di trarre, come principale lezione, la certezza che noi “siamo condannati a convive-re con noi stessi”, cioè che dobbiamo vigilare su noi stessi, costantemente, poiché possiamo correre il rischio di cadere in quella “assenza di pensiero” cui naturalmente anche “i migliori di noi” sono esposti. La “incapacità di pensa-re”, che già nella seminale intuizione di Arendt e poi nelle tanto sofisticate quanto discutibili sperimentazioni di Milgram risulta foriera di derive morali dagli esiti così intollerabili, è la conseguenza estrema di una più generale diffi-coltà a pensare l’altro.  La metafora quadro che istituisce il sapere psicologico in termini di black box rende chia-ra la tendenza della mente a “chiudersi” e a com-prendere l’altro solo se può con-tenerlo nella dinamica tra “interno” ed “esterno”, se-condo i ritmi storicamente dati dell’inclusio-ne/esclusione. Ma l’immagine della mente come “contenitore” è costantemente sfidata dal fatto che nel mondo c’è comunque dell’altro.  La storia della costituzione di una psicolo-gia come scienza offre molte evidenze del bi-sogno radicale della mente quale sistema auto-riferito. Basti pensare alle ricerche condotte nell’ambito della “teoria dell’attribuzione” da cui risulta che, per funzionare, la mente sem-bra “condannata” a pensare sé, avvalorando prevalentemente le attese dell’identità a scapi-to dell’alterità. Prima di diventare un problema relazionale, l’altro è un enigma cognitivo. Si può persino congetturare che l’altro sia “condanna-to” a essere vissuto come imbarazzo relaziona-le, perché è una difficoltà cognitiva.  Gli studi degli Infant Researchers sullo svi-luppo della “teoria della mente” mostrano quali raffinate abilità interpretative siano necessarie per configurare una prima capacità di mit-einander-sein, che vada oltre quella basilare di mitsamt-sein, per seguire l’illuminante distin-zione proposta da Gadamer per l’analisi della socialità umana. Se pensare sé con l’altro è la sfida cruciale inscritta nella condizione umana, la “assenza di pensiero” – nelle condotte prati-che e in quelle riflessive – svela la possibilità (esposta alla scelta?) di rinunciarvi. 

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Alterità e convivenza tra pregiudizio e nuove forme di consapevolezza

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