Morciano, G. Patrizia

Italian

Università del Salento: ESE - Salento University Publishing

L'IDOMENEO  Idomeneo (2022), n. 33, 329-331 ISSN 2038-0313 DOI 10.1285/i20380313v33p329 http://siba-ese.unisalento.it, © 2022 Università del Salento   Laura Silvia BATTAGLIA, Lettere da Guantánamo, Roma, Castelvecchi, 2021, pp. 96. Nel settembre 2021 la casa editrice Castelvecchi ha pubblicato Lettere da Guantánamo (sottotitolo: Dall’inferno al limbo, dove sono i detenuti del 9/11), edizione riveduta e ampliata dell’e-book uscito nel 2016 per Edizioni Centouno. L’autrice è Laura Silvia Battaglia, reporter italiana naturalizzata yemenita, specia-lizzata in aree di crisi e conflitti, documentarista e collaboratrice di media nazionali e internazionali. La nota introduttiva spiega che il libro, nato da un paziente lavoro decennale, cominciato a dieci anni dall’11 settembre 2001 e svolto per lo più in Yemen, risponde al bisogno di documentare come «in nome della giustizia necessaria, si siano perpetrate altre innumerevoli ingiustizie, spesso basate su dati scorretti e false testimonianze» (p. 5). Si tratta del resoconto di incontri avuti con familiari di detenuti di Guantánamo, con loro avvocati, con ex detenuti stessi del famigerato carcere, che ci racconta una storia di diritti umani violati. Come quelli di Salman al-Raeyee, la cui incredibile vicenda è raccontata nel cap. 5, che ricostruisce l’incontro avuto con Amina, sorella di Salman, dalla stessa Battaglia e da Terry Kay Rockefeller, attivista statunitense per i diritti umani del gruppo Code Pink che nell’attentato alle Torri Gemelle perse una sorella e che, proprio per questo, ha intrapreso un percorso di ricerca della verità su quei fatti. Quella relativa a Salman che le due donne hanno ascoltato da Amina è la storia di un innocente, sedicenne all’epoca dei fatti, arrestato al posto del fratello maggiore, lui sì radicalizzato, e portato a marcire nell’inferno della prigione cubana. All’incubo iniziato per Salman si è aggiunto, in tutti questi anni, il dramma degli altri familiari, emarginati socialmente, ma anche letteralmente perseguitati nella componente maschile della famiglia: il padre e il fratello minore più volte sono stati sbattuti nelle carceri yemenite e tenuti dentro per anni senza motivo. Ora il padre è morto, senza poter riabbracciare quel figlio innocente, ma non si è spenta la battaglia per Salman, portata avanti da Amina che continua a chiedere la liberazione di suo fratello.  Guantánamo è per più motivi il sepolcro dei diritti umani negati dagli Usa in nome della lotta al “terrore”.  Il libro riporta altre storie, altri nomi di detenuti lasciati spesso per anni in celle di pochi piedi e arroventate dai tetti di lamiera, prima di ricevere accuse formali. Questo, per giunta, avviene nel migliore dei casi perché, in genere, «proprio lo speciale status di Guantánamo, una prigione non su suolo americano, consente la detenzione senza l’obbligatorietà di un processo penale per tutti gli “ospiti”» (p. 52). È questa, per esempio, la condizione in cui si trovano i protagonisti delle storie raccontate nei capp. 7 e 8 del libro, capitoli importanti anche perché fanno capire come a Guantanamo vengano violati anche diritti umani essenziali, come quello Note e recensioni   330  alla corrispondenza con i propri cari: che si chiami Abdusalam al-Helah o Haiel al-Methali, il detenuto di Guantánamo può comunicare con la famiglia via Skype ogni sei mesi, ma non deve parlare dei suoi sentimenti perché altrimenti la video-telefonata viene interrotta e può anche passare un anno prima che sia possibile una nuova comunicazione; le lettere, inoltre, sono controllate e arrivano sempre abrase in nero in alcuni punti, molto probabilmente quelli in cui il detenuto cerca di comunicare stati d’animo e di salute, attività d’interrogatorio, condizione degli altri prigionieri e altre cose del genere. Una sorta di autocensura preventiva è d’altronde raccomandata dalle organizzazioni umanitarie anche ai familiari a cui è consigliato di non mandare foto di famiglia giacché potrebbero essere utilizzate durante le torture per estorcere informazioni ai prigionieri. Oggi a Guantánamo restano solo 39 dei 780 detenuti “passati” di là dal 2002, ma se qualcuno pensa che la sorte di chi ne è uscito sia di molto migliore si sbaglia. I detenuti, infatti, specialmente quelli yemeniti, non son potuti tornare nei loro Paesi di nascita o provenienza al giorno dell’arresto, a causa delle condizioni di insicurezza in essi presenti. Gli Usa hanno perciò stretto accordi con Paesi Nato o terzi, alleati degli Stati Uniti, per il trasferimento “rieducativo” dei prigionieri. Si tratta per lo più di Paesi come Bosnia, Uruguay, Slovacchia, capaci di offrire condizioni che favoriscano l’isolamento fisico e sociale del detenuto, o di luoghi periferici, dove, per esempio, non esista alcuna comunità araba islamica. È quindi molto difficile per un ex detenuto di Guantánamo integrarsi, non essere trattato come un paria, o conoscere qualcuno con cui avviare una relazione sentimentale. In questa condizione di libertà “vigilata” subentra, dunque, per gli ex detenuti, un isolamento di fatto che approfondisce il solco dei traumi subiti. Il primo capitolo del libro è riservato alla storia di uno degli ex detenuti, Faiz Suleiman, yemenita, arrivato in Italia nel 2016 – dopo quattordici anni passati nel carcere cubano – nell’ambito degli accordi avviati già nel 2009 dal governo italiano con l’amministrazione Obama. Il titolo del capitolo, Storia di Faiz, che non sa più chi sia, la dice già tutta sul senso di smarrimento post-Guantánamo. Ma in fondo Faiz è stato fortunato: in Sardegna ha trovato una professoressa di italiano e i suoi familiari sensibili e pronti ad aiutarlo nell’integrazione, si è aperto ad un minimo di socialità tramite un’associazione di volontariato. Purtroppo la reclusione forzata causata dalla pandemia non l’ha aiutato, anzi, per certi aspetti, gli ha dato la sensazione di rivivere la prigionia. Ma soprattutto resta nella memoria di Faiz una zona buia che ogni tanto riemerge e che lo porta a diffidare di alcune persone, anche solo per il fatto che nelle fattezze e nella voce fanno riaffiorare nella sua mente altre forme e altre voci, quelle dei suoi aguzzini, che, come racconta all’autrice del libro, l’hanno sottoposto per diversi anni a waterboarding, violenze sessuali anche anali, alimentazione forzata per via rettale. In barba al rispetto dei diritti dei prigionieri e al divieto di ogni tortura punito dalla Corte penale internazionale dell’Aja, il cui trattato istitutivo (Trattato di Roma del 1998) gli Stati Uniti non hanno del resto mai sottoscritto. Tra l’altro, se Faiz è stato recluso a Guantánamo con l’accusa di essere stato un artificiere di Bin Laden, accusa mai Note e recensioni   331  pienamente provata, anche perché formulata sulle parole di un testimone poi giudicato del tutto inattendibile e ancora oggi respinta («Se chiedo se ha mai ucciso un uomo, nega – scrive la Battaglia a p. 14 – Se chiedo se ha mai costruito un ordigno per uccidere uno o più uomini, nega. […] Dunque qaedista sì, e reo confesso ideologico, ma senza macchia omicida»), il caso raccontato alla giornalista dall’avvocato Gilles Devers, che ha sostenuto la difesa di alcuni detenuti di Guantánamo, ha davvero del paradossale: è la vicenda di cinque detenuti uiguri arrestati inAfghanistan nel 2001, che continuano a rimanere reclusi nel carcere cubano, nonostante sul loro dossier ci sia scritto chiaramente “arrestati per errore”, perché non si sa dove ricollocarli né si possono portare in Cina, dove sarebbero perseguitati. Non si può dunque non concordare con le dure parole di Devers quando dice che «a livello internazionale manca un processo contro gli Stati Uniti» che si appellano alla Corte Penale Internazionale per giudicare i capi criminali di vari Stati, «quando avrebbero potuto firmare il Trattato di Roma che sta alla base dei lavori della Corte Penale Internazionale», e non riesce a spiegarsi come possa avere paura di una corte «un Paese che ama la democrazia e i valori liberali» (p. 58). Non manca, nel libro, l’intervista a Larry Siems sul suo Guantánamo Diary, trascrizione del diario che il detenuto Mohamedou Ould Slahi era riuscito a consegnare ai suoi avvocati e che l’attivista Siems è riuscito a pubblicare solo dopo quattro anni perché nessun editore, all’inizio, voleva avere a che fare con il diario di un prigioniero di Guantánamo. Ora Mohamedou, rilasciato l’anno stesso in cui finalmente il suo diario ha visto la pubblicazione, nel 2016, è a casa, in Mauritania, ma – come si è detto – pochi hanno avuto questa sorte: la maggior parte vive una sorta di esilio sine die, magari in attesa di un visto che permetta una visita da parte dei familiari. Per chi è ancora a Guantanamo resta probabilmente la detenzione indefinita, dato che gli attivisti per i diritti umani intervistati nel libro sono molto pessimisti circa la promessa di chiusura definitiva della prigione cubana, ribadita da Biden, ma già fatta e non mantenuta dall’amministrazione Obama. Lo stesso Larry Siems, nell’incontro avuto con l’autrice, esprime la sua convinzione che Guantánamo non chiuderà mai, perché «custodisce segreti terribili che la chiusura definitiva […] costringerebbe a rivelare» (p. 62). Sono quelli che, per fortuna, sono in parte filtrati in tutti questi anni, grazie alle poche persone sensibili che ne hanno parlato prima delle testimonianze dei detenuti, qualche guardia che, dopo essere uscita da quell’inferno con seri problemi di stress, incubi e dipendenze varie, ha trasgredito il divieto imposto dai capi militari e ha svelato al mondo una delle più vergognose violazioni delle leggi internazionali sui diritti umani.                                                                                           G. Patrizia Morciano 

LAURA SILVIA BATTAGLIA, Lettere da Guantánamo

ESE - Salento University Publishing

http://siba-ese.unile.it/index.php/idomeneo/article/download/26017/21542

LAURA SILVIA BATTAGLIA, Lettere da Guantánamo

Abstract

Similar works

Full text

Available Versions

Università del Salento: ESE - Salento University Publishing

ESE - Salento University Publishing