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    Epatite gigantocellulare associata ad anemia emolitica autoimmune: qual è il ruolo della terapia con immunoglobuline per via endovenosa?

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    Introduzione. Con il termine epatite gigantocellulare associata ad anemia emolitica autoimmune si definisce una condizione patologica molto rara (nella letteratura anglo-americana sono descritti circa trenta casi), eterogenea dal punto di vista clinico e prognostico, con esordio solitamente nei primi due anni di vita e la cui diagnosi certa è possibile solo con una biopsia epatica che dimostri la presenza di epatociti giganti associata ad un tesi di Coombs positivo. Si ipotizza che l'eziopatogenesi di questa patologia sia autoimmune, cioè dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario anticorpo-dipendente, che colpisce principalmente gli eritrociti e gli epatociti ma potenzialmente anche altri organi come encefalo e polmone. L'anemia Coombs positiva è meglio controllabile rispetto alla disfunzione epatica che può raggiungere l'insufficienza ed arrivare all'exitus. La terapia principale consiste, come per l'epatite autoimmune, nell'uso degli steroidi, in particolare prednisone, ad alti dosaggi, come trattamento d'attacco per bloccare la risposta infiammatoria, da scalare successivamente qualora si evidenzi una buona risposta al trattamento. Questo approccio farmacologico classico ha su questi bambini, in un età con elevata velocità di accrescimento, conseguenze importanti sulla crescita stessa ma anche su altri aspetti, come la costante e notevole cortisonizzazione a cui vanno incontro, aspetti che minano fortemente la qualità della loro infanzia. Scopo dello studio. Il presente studio ha come obiettivo quello di valutare l'efficacia delle immunoglobuline per via endovenosa come terapia complementare agli steroidi e all' azatioprina, per poter ridurre la posologia del prednisone stesso e tentare di liberare questi pazienti dagli effetti collaterali degli steroidi. Le immunoglobuline costituiscono una terapia convalidata in caso di immunodeficienze congenite ed acquisite e data l'elevata efficacia nella porpora trombocitopenica autoimmune, oggi fra le sue indicazioni ritroviamo altre patologie anticorpo mediate. Il campione del nostro studio comprende solo due pazienti (data la rarità di questa patologia): una bimba di sei anni e due mesi, paziente dell'AOUP – Ambulatorio di Gastroenterologia ed epatologia pediatrica, e un bimbo di otto mesi della Clinica Universitaria di Trieste. Entrambi si sono sottoposti ad infusioni di immunoglobuline per via endovenosa ogni quattro settimane per un periodo di sei-sette mesi, in regine di day-hospital o ricovero. Prima di ogni ciclo e a distanza di circa due settimane sono stati effettuati prelievi ematici per valutare l'esame emocromocitometrico, la concentrazione delle aminotransferasi, della gammaglutamiltransferasi, della bilirubina totale/ diretta e delle immunoglobuline. Risultati. I due pazienti hanno un'anamnesi patologica molto diversa: la prima è affetta dalla patologia dall'età di sei mesi, in terapia quindi da cinque anni e sette mesi con corticosteroidi in modo persistente e diversi altri farmaci immunomodulanti, senza mai ottenere una remissione completa permanente; l'unico farmaco che è riuscito a normalizzare le transaminasi e contemporaneamente ridurre in modo modesto il dosaggio steroideo è stato il Rituximab. Il secondo paziente ha iniziato questa terapia sperimentale un mese dopo l'inizio del trattamento per la precoce recidiva dopo la riduzione del dosaggio steroidi. In entrambi possiamo riconoscere gli effetti collaterali tipici degli steroidi (più marcati nella bimba per l'uso più prolungato della terapia): eccesso ponderale, arresto della crescita, ipertensione arteriosa, irsutismo, cataratta. Il paziente più piccolo riesce a normalizzare le aminotransferasi dopo sei mesi ed è possibile ridurre il dosaggio steroideo da 3mg/Kg di prednisone a 0.8 mg/Kg (successivamente è stato preferito l'uso di betametasone per una maggiore sensibilità alla dose di 0.02 mg/Kg/die); ad agosto però ha avuto una nuova recidiva sia dell'epatite che dell'anemia poiché a luglio non ha eseguito l'infusione di immunoglobuline per valutare l'efficacia a lungo termine e diluire nel tempo le somministrazioni. Per l'altra paziente i risultati sono simili per quanto riguarda l'efficacia a breve termine ma non nel lungo periodo. Questa infatti, ha ottenuto la remissione completa (con ALT e AST pari rispettivamente a 2,4 e 1,4 volte la norma ), senza mai ridurre la dose degli steroidi, data la sua precedente storia di recidive: lo step down del prednisone (riduzione di 2,5 mg/Kg/die) è iniziato solo dopo la normalizzazione del profilo epatico. A distanza di un mese le transaminasi sono però di nuovo aumentate, evidenziando come in questo caso non sia possibile attuare il tipo di approccio del nostro studio. Conclusioni. Il nostro studio è il primo studio preliminare sull'uso continuato della terapia con immunoglobuline per via endovenosa nell'epatite gigantocellulare associata all'anemia emolitica autoimmune; in letteratura infatti, è descritto un solo approccio terapeutico molto simile in un bambino con anemia Coombs positiva ed epatite verosimilmente gigantocellulare. In base alla risposta dei nostri due piccoli pazienti (risposta completa in un caso su due) possiamo concludere che il tentativo terapeutico con immunoglobuline per via endovenosa sia potenzialmente un metodo efficace nel controllo della patologia epatica, complementare ai corticosteroidi, affinché sia possibile ridurre il dosaggio di quest'ultimi ad una posologia tale da influenzare il meno possibile gli effetti sulla crescita di questi piccoli pazienti (dato che si tratta di una terapia cronica che i bambini dovranno assumere per anni e in caso di remissione, di fronte alle frequenti possibili recidive). La sua efficacia nella fase acuta, e quindi a breve termine è ottima, come si nota dalla risposta clinica e di laboratorio dei nostri due pazienti, soprattutto dopo la prima infusione, così da costituire un ottimo metodo per controllo di recidive. Questa risposta positiva è in accordo con la patogenesi di questa patologia: le immunoglobuline intervengono proprio sulla disfunzione del sistema immunitario che in questo caso è di tipo anticorpo dipendente. Inoltre le immunoglobuline hanno un ottimo profilo di sicurezza e minimi effetti collaterali: per questo motivo è importante che questo tentativo terapeutico preceda l'uso di altri tipi di farmaci immunosoppressori come il Rituximab, gravato da potenziali conseguenti infezioni severe, a causa della conseguente ipogammaglobulinemia, nonostante la sua ottima buona efficacia in questi casi

    L'epatite gigantocellulare associata ad anemia emolitica autoimmune

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    Giant cell hepatitis with autoimmune hemolytic anaemia (GCH-AHA) is a rare and aggressive disease of infancy and may have fatal prognosis. It is presumed to be an autoimmune disease, but the mechanism of liver injury is unknown.Immunosuppressive therapymay results in remission in mild forms while in severe forms, B cell depletion with rituximab can be an option. Liver transplantation may be a rescue treatment but relapse can occur in the graft

    La sindrome di Alagille

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    Alagille syndrome (ALGS, OMIM 118450) is a multisystem disorder due to defects in components of the Notch signalling pathway. Its main clinical and pathological features are chronic cholestasis due to paucity of intrahepatic bile ducts, peripheral pulmonary artery stenosis, vertebral segmentation anomalies, characteristic facies, posterior embryotoxon and dysplastic kidneys. It is transmitted in an autosomal dominant pattern of inheritance with variable expressivity that accounts for its phenotypic variability. Diagnosis may be easy if all the clinical signs are present, while it can be difficult in some patients who do not show unequivocal classic features of the disorder. The short-term prognosis is conditioned by the severity of the possible complex cardiopathy and by the presence of an early and severe cholestasis, while the prognosis in the long term remains uncertain because of the risk of developing a terminal renal insufficiency and cerebral vascular complication

    Efficacy of intravenous immunoglobulin therapy in giant cell hepatitis with autoimmune hemolytic anemia: a multicenter study

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    Background and objective: Giant cell hepatitis with autoimmune hemolytic anemia (GCH-AHA) is a rare disease of infancy, of possible autoimmune mechanism with poor prognosis due to its scarce response to immunosuppressive drugs. The aim of this retrospective multicenter study was to evaluate the efficacy and safety of intravenous immunoglobulin (IVIg) treatment in inducing and maintaining remission of the liver disease, in patients with GCH-AHA. Methods: Seven children with GCH-AHA, four newly diagnosed, and three in relapse, being treated with different therapies, received one to three IVIg infusions (0.5 to 2 g/kg) in association with other immunosuppressive drugs. Subsequently five of them received monthly sequential IVIg infusions (mean 13.4, range 7—24)

    Efficacy of intravenous immunoglobulin therapy in giant cell hepatitis with autoimmune hemolytic anemia: A multicenter study

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    BACKGROUND AND OBJECTIVE: Giant cell hepatitis with autoimmune hemolytic anemia (GCH-AHA) is a rare disease of infancy, of possible autoimmune mechanism with poor prognosis due to its scarce response to immunosuppressive drugs. The aim of this retrospective multicenter study was to evaluate the efficacy and safety of intravenous immunoglobulin (IVIg) treatment in inducing and maintaining remission of the liver disease, in patients with GCH-AHA. METHODS: Seven children with GCH-AHA, four newly diagnosed, and three in relapse, being treated with different therapies, received one to three IVIg infusions (0.5 to 2g/kg) in association with other immunosuppressive drugs. Subsequently five of them received monthly sequential IVIg infusions (mean 13.4, range 7-24). RESULTS: IVIg infusions as first-line therapy associated with prednisone and other immunosuppressive drugs significantly (P=0.04) reduced the aminotransferase activity in all patients and normalized prothrombin activity in the only patient with severe liver dysfunction. Sequential monthly IVIg infusions determined a steroid-sparing effect and allowed a complete or partial remission in all patients, although with temporary efficacy, since relapse of the hemolytic anemia and/or of liver disease occurred in all patients. IVIg infusions were associated with mild side effects in two patients. CONCLUSIONS: IVIg infusion can be safely and effectively administered in patients with severe GCH-AHA at diagnosis, or in case of relapse, in association with other immunosuppressive drugs. Repeated IVIg infusions may help maintain remission, however, due to their temporary efficacy, they should not be routinely employe
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