128 research outputs found

    In Lucania, oltre Paestum: antico e natura sulle tracce di Nèstore ed Epèo

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    In the earliest modern-age descriptions of Lucania emerge feelings close to an ante litteram Burkian delightful horror where out-of-reach mountains, impervious woods and gloomy marshes make up the recurring descriptive programme of lands «as toilsome and unpleasant as a basilisk. And perhaps they received their name from their ruggedness and crookedness», as Leandro Alberti noted in 1550. His reference to the mythologic figure of the reptile, capable of killing people just by looking at them, brews in the impressions of Nineteenth-century travellers who go beyond the picturesque and the antique and translate the seducing horror of such places of wretchedness and death into an inner experience of the landscape, ‘an analytic insight into the Sublime’ where Nature prevails over man and his every action. In this Kantian line converge the travel notes of all Nineteenth-century travellers and artists, unanimously creating an invisible academy of the Sublime accrued by the tremendous magnificence of the landscape.Sentimenti vicini a un delightful horror burkiano ante litteram affiorano nelle prime descrizioni di età moderna della Lucania dove irraggiungibili montagne, impenetrabili boschi e cupe paludi compongono il ricorrente palinsesto descrittivo di terre «Tanto faticose, e fastidiose, come un Basilisco. Et forse da questa difficoltà, e tortuosità vi fu imposto il nome», come annotava Leandro Alberti nel 1550. Quel rimando alla figura mitologica del serpente, capace di uccidere con il solo sguardo, fermenta nelle impressioni dei viaggiatori ottocenteschi che, ben oltre il pittoresco e l’antico, traducono quel seducente orrore di luoghi di miseria e morte, in un’esperienza interiore del paesaggio, ‘un’analitica del Sublime’ dove la Natura prevale sull’uomo e su ogni sua azione. In questa linea kantiana confluiscono le annotazioni di viaggio dei viaggiatori e degli artisti ottocenteschi tutti, coralmente artefici di un’invisibile accademia del Sublime alimentata dalla terrifica magnificenza del paesaggio

    “Ferropoli” e il paesaggio occidentale di Napoli

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    A landscape made of ruins, crumbling and disappearing, but quietly, very quietly, like a slow but irremediable agony, is the place narrated in La dismissione (REA 2002) by Vincenzo Buonocore, the laborer who had worked all his life at the “Ilva” factory of Bagnoli and was now supervising its dismantling. The closure of the steel plant coincides with the disappearance of a particular idea of the city and with the loss of a social and productive reality  now entrusted to hamstrung fragments of machinery which, in the bitterly ironic words of Vincenzo, «will stay where they are, a witness for future reference (as the blast furnace and the steel mill) entitled “industrial archaeology”: once upon a time there was a factory here, actually THE FACTORY» (REA 2002).Relying on the documentation of the Italsider Archive of Bagnoli, our contribution is centered on two dramatic transformations of the western landscape of Naples: the former linked with the building of the Ilva factory at Bagnoli in 1910 and the latter, equally sudden, to its closure in 1996 which has brought about an urban and social abandonment that lingers unsolved, since the urban redevelopment planned by the Town Council has never been completed.Following the dismantling, that tangle of old machines and smoking buildings innervated on the ground and reaching towards the sea progressively dwindling into a mass of disemboweled machines appearing as silent, isolated and gigantic sculptures of iron, rust, and concrete, with the blast furnace stripped of its casing, the steel mill empty and fragments of equipment that are still there, but only as pieces of a by now inane landscape. “Ferropoli” e il paesaggio occidentale di NapoliUn paesaggio di rovine che si sgretola e  scompare, ma piano, pianissimo, come una lenta, ma irreversibile agonia, è il luogo raccontato, ne La dismissione di Ermanno Rea (2002),  da  Vincenzo Buonocore, l’operaio aveva lavorato tutta la vita all’Ilva di Bagnoli e ora ne sovrintendeva  lo smantellamento.  La chiusura del complesso siderurgico coincide con la scomparsa di  un’idea di città e con la perdita di una realtà sociale e produttiva la cui memoria è oggi affidata a monchi frammenti di macchine che, ancora nelle parole amaramente ironiche di Vincenzo, «resteranno là dove sono, testimonianza a futura memoria (come l’altoforno e l’acciaieria) con il titolo di “archeologia industriale”: qui c’era una volta una fabbrica, anzi, LA FABBRICA…» (Rea 2002).Registrando la documentazione presso l’Archivio Italsider di Bagnoli, il contributo è incentrato su due drastiche trasformazioni del paesaggio occidentale di Napoli, quella legata alla costruzione dell’Ilva di Bagnoli nel 1910 e l’altra, ugualmente violenta, della sua dismissione nel 1996, causa di un abbandono urbano e sociale tuttora irrisolto. In questa dimensione, alternando fasti produttivi e dure crisi economiche, l’impianto metallurgico  cessava drasticamente ogni attività nel 1996, quando il Consiglio Comunale approvava la variante al PRG programmando la bonifica dell’ex area industriale nell’ambito di un  progetto di riqualificazione urbana, mai compiutamente attuato. In seguito alla dismissione quel groviglio di macchine ed edifici fumanti innervato sulla terra e proteso verso il mare, veniva gradualmente a ridursi a un insieme di macchine sventrate che appaiono come silenziose, isolate e gigantesche sculture di ferro, ruggine e cemento, con l’Altoforno spogliato del suo involucro, l’Acciaieria svuotata e frammenti di impianti conservati, ma ormai muti frammenti di un paesaggio ormai vacuo.Un paesaggio di rovine che si sgretola e  scompare, ma piano, pianissimo, come una lenta, ma irreversibile agonia, è il luogo raccontato, ne La dismissione di Ermanno Rea (2002),  da  Vincenzo Buonocore, l’operaio aveva lavorato tutta la vita all’Ilva di Bagnoli e ora ne sovrintendeva  lo smantellamento.  La chiusura del complesso siderurgico coincide con la scomparsa di  un’idea di città e con la perdita di una realtà sociale e produttiva la cui memoria è oggi affidata a monchi frammenti di macchine che, ancora nelle parole amaramente ironiche di Vincenzo, «resteranno là dove sono, testimonianza a futura memoria (come l’altoforno e l’acciaieria) con il titolo di “archeologia industriale”: qui c’era una volta una fabbrica, anzi, LA FABBRICA…» (E. Rea, La dismissione).Registrando la documentazione presso l’Archivio Italsider di Bagnoli, il contributo è incentrato su due drastiche trasformazioni del paesaggio occidentale di Napoli, quella legata alla costruzione dell’Ilva di Bagnoli nel 1910 e l’altra, ugualmente violenta, della sua dismissione nel 1996, causa di un abbandono urbano e sociale tuttora irrisolto. In questa dimensione, alternando fasti produttivi e dure crisi economiche, l’impianto metallurgico  cessava drasticamente ogni attività nel 1996, quando il Consiglio Comunale approvava la variante al PRG programmando la bonifica dell’ex area industriale nell’ambito di un  progetto di riqualificazione urbana, mai compiutamente attuato. In seguito alla dismissione quel groviglio di macchine ed edifici fumanti innervato sulla terra e proteso verso il mare, veniva gradualmente a ridursi a un insieme di macchine sventrate che appaiono come silenziose, isolate e gigantesche sculture di ferro, ruggine e cemento, con l’Altoforno spogliato del suo involucro, l’Acciaieria svuotata e frammenti di impianti conservati, ma ormai muti frammenti di un paesaggio ormai vacuo.  “Ironopolis” and the Western Landscape of NaplesA landscape made of ruins, crumbling and disappearing, but quietly, very quietly, like a slow but irremediable agony, is the place narrated in La dismissione (REA 2002) by Vincenzo Buonocore, the laborer who had worked all his life at the “Ilva” factory of Bagnoli and was now supervising its dismantling. The closure of the steel plant coincides with the disappearance of a particular idea of the city and with the loss of a social and productive reality  now entrusted to hamstrung fragments of machinery which, in the bitterly ironic words of Vincenzo, «will stay where they are, a witness for future reference (as the blast furnace and the steel mill) entitled “industrial archaeology”: once upon a time there was a factory here, actually THE FACTORY» (REA 2002).Relying on the documentation of the Italsider Archive of Bagnoli, our contribution is centered on two dramatic transformations of the western landscape of Naples: the former linked with the building of the Ilva factory at Bagnoli in 1910 and the latter, equally sudden, to its closure in 1996 which has brought about an urban and social abandonment that lingers unsolved, since the urban redevelopment planned by the Town Council has never been completed.Following the dismantling, that tangle of old machines and smoking buildings innervated on the ground and reaching towards the sea progressively dwindling into a mass of disemboweled machines appearing as silent, isolated and gigantic sculptures of iron, rust, and concrete, with the blast furnace stripped of its casing, the steel mill empty and fragments of equipment that are still there, but only as pieces of a by now inane landscape

    Procida sacra. L'immaginario religioso tra feste, riti e processioni

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    L’immaginario religioso dell’isola narrato e ricostruito nel cerimoniale in onore di Santi e Madonne, un patrimonio culturale di feste, riti e processioni, confluenza di arcaiche consuetudini che un tempo scandivano l’intero anno. Se la formazione degli abitati dell’isola trae origine dai cenobi medievali, rilevanti per la costruzione dell’immagine urbana furono anche chiese e cappelle, documentate nel suburbio della Terra già nella prima metà del Cinquecento. Un territorio profondamente segnato da una religiosità e da antiche devozioni maturate nell’universo bizantino altomedievale come il culto per l’Arcangelo guerriero o quello di santa Margherita d’Antiochia, ai quali si aggiungeranno in età post-tridentina le celebrazioni della Passione di Cristo nella Settimana Santa con la teatralità delle sue processioni, o quella della Madonna del Rosario o della Vittoria in ricordo della battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571) vinta dai cristiani sui turchi. Antichi riti in un territorio solcato da processioni religiose seguendo l’alternarsi delle stagioni, come a voler sacralizzare lo spazio profano delle strade e delle contrade agricole: una messa in scena, di volta in volta penitente o gaudiosa, strutturata su percorsi lungo i quali le soste di preghiera, gli altari allestiti nei crocicchi affollati da fedeli, costruivano il palinsesto di un paesaggio urbano e della sua dimensione religiosa. Ridimensionato dalle trasformazioni economiche, sociali e culturali, questo patrimonio materiale e immateriale, che sembra irrimediabilmente svanire, è ricostruito in un libro corale recuperando testimonianze orali sugli antichi itinerari processionali e illustrando statue, dipinti, manufatti artistici e preziosi paramenti in seta, al centro di un’indagine storica commentata da fotografie di archivi per conservare i fragili segni di un territorio e della sua ancestrale memoria sacra

    Torino, il ritratto di una capitale nel Grand Tour di Joseph-Jérôme de Lalande

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    Il celebre astronomo Joseph-Jérôme de Lalande (1732-1807) nell'agosto del 1765 partiva da Parigi per un lungo viaggio in Italia, il cui resoconto fu pubblicato a Parigi nel 1769 in sette tomi Voyage dun Français en Italie fait dans les années 1765 et 1766 - concepiti con sistematicità e rigore enciclopedici al punto da qualificarsi come un testo di riferimento per ben più di una generazione di eruditi. Come tutti i viaggiatori provenienti dalla Francia, Torino è la prima grande città italiana che Lalande visita e il suo 'racconto', lucido e sistematico, sviluppato in ben otto capitoli del primo volume del Voyage, presto si qualificò come il più attento reportage del tempo compilato sulla città. Egli giunge nella città negli anni in cui la retorica dell'assolutismo, alimentata dalle cupole guariniane emergenti nel paesaggio urbano del monotono impianto ortogonale delle strade, e più tardi dai principi di embellissement applicati da Juvarra, ha compiutamente ridisegnato l'immagine della città, ormai inserita fra le capitali d'Europa. Proprio nello specchio del 'ritratto' del Lalande, la città acquista la nuova identità di capitale e gli ottant'anni che separano il viaggio dell'astronomo francese da quello precedente del Misson, poco interessato alla città sabauda, non appaiono trascorsi invano

    I Campi Flegrei. Il paesaggio e la metafora/The Phlegrean Fields: The Landscape and the mataphor

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    Within the area of the landscape representation, the Phlegrean Fields have attracted a special attention because of the close integration between nature and archaeology. Their most true image is their underground figure, linked to the presence of the myth. In the Middle Ages the image of the Phlegrean Fields was linked to spas, while dur¬ing the Renaissance the rich repertoire of ruins existing between Pozzuoli and Cuma offered the opportunity to investigate two aspects of the antiquarian research: on the one hand, the reflection on the ideal forms, on centrality of architectural works, the mathematical foundation of harmonious proportions and, secondly, the survey on the more technical and construction aspects of the Roman architectural culture. During the sixteenth century, the sudden appearance of the Monte Nuovo aroused the interest of artists and travelers, confirming the image of a landscape always underconstruction, of a place that you can never fix in a definitive portrait. Artists, Italian and foreign geographers and travelers of modern pilgrimage resume those vestiges of ancient memories in environments where it is clear the intention to grasp the idea of the landscape. If in the sixteenth century, the visit to the Phlegrean Fields was one of the key mo¬ments for the foreigner artist who traveled to Italy, it is from the seventeenth century that the phenomenon assumes the character of a real institution. But with the age of the Enlightenment, in the mirror of the Grand Tour and the related archaeologi¬cal discoveries at Pompeii and Herculaneum, the representation of the Phlegrean Fields evolves towards a renewed cultural dimension. In this perspective, the iconography interprets landscape, nature and archaeology in a picturesque key and then in a “scientific” production of topographic maps of the mid-eighteenth century. With the beginning of the nineteenth century, continues the fortunate iconography of the Phlegrean Fields, but the picturesque views are flanked and then replaced by the romantic images that soon thin out creating new and more pragmatic rep¬resentations required by the nascent bourgeois tourism, ready to make return the representation of Phlegrean Fields in the stereotype of the souvenir. As regularly happens in the romantic imagerie, even for Phlegrean Fields, the nine¬teenth-century drawings would soon directed the first photographic production, within a slow process and in line with the synchronous cultural patterns of the land¬scape representation

    Procida, un'architettura mediterranea

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    L’architettura di Procida ha radici antiche le cui origini rimandano a una sedimentata geografia di scambi e culture. Case allineate sul mare o che si fronteggiano quasi fino a toccarsi su strade strette come feritoie in un densissimo tessuto edilizio, volte e cupole dalle inedite forme innalzate su antiche chiese, archi accentuati da complessi giochi d’ombra. E poi le scale: esterne, rampanti sulle facciate o interne a scarnificare il corpo edilizio o, ancora, in facciata a comporne il disegno. Un prezioso, irripetibile patrimonio di segni, forme e tecniche. La storia dell’isola è tutta scritta nel suo mare, nodo di contaminazioni e crocevia di scambi commerciali fin dall’età micenea come anche costante minaccia di scorrerie e saccheggi: un orizzonte perennemente scrutato dove eventi e natura hanno determinato forma e ubicazione degli insediamenti

    Gli insediamenti storici da Cuma a Procida

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    Il saggio ricostruisce la formazione e gli sviluppi dei centri urbani flegrei dalle origine greche all'età contemporanea

    Il Padiglione Rodi: Archeologia italiana nel Dodecaneso e narrativa di regime

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    «Con evidente richiamo alle architetture di Rodi, gemma del Mediterraneo orientale, è sorto questo edificio che accoglie e mostra in sintesi le opere e le fasi più salienti della storia del possedimento, per la cura attenta e raffinata dell’arch. Giovanni Battista Ceas, che ne fu progettista ed allestitore». Quando Plinio Marconi presentava la Prima Mostra delle Terre Italiane d’Oltremare, nel numero monografico di «Architteura» del 1941, dedicato all’evento inaugurato il 9 maggio dell’anno precedente, l’Italia era già in guerra e il suo articolo, come lui stesso annunciava, era «un atto di fede. Sicura fede nei destini dell’Impero Fascista, il quale dopo l’immancabile vittoria, riprenderà il suo sviluppo che si manifesterà con feconde opere di Civiltà». In un clima di laceranti contraddizioni, tra l’erompere della guerra appena un mese dopo l’inaugurazione della Mostra e la retorica della propaganda fascista, gli organi dirigenti intesero riassumere nel padiglione delle Isole Italiane dell’Egeo, un’architettura «rude e, al tempo stesso, preziosa», la conquista italiana del Dodecaneso, uno dei «lembi prediletti della penisola proiettati sugli oceani», al pari di tutte le colonie d’oltremare. Riallacciandosi alle mirabilia della terra flegrea, opulento theatrum degli otia e dei negotia di Roma imperiale, il regime celebrava nell’edificio le imprese delle missioni archeologiche a Rodi iniziate fin dal 1912 quando, conclusa la guerra con la Turchia e in seguito all’occupazione italiana dell’isola, il direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene Luigi Pernier programmò una prima ricognizione dei monumenti nel luogo
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