151 research outputs found
I rischi dell’etnicizzazione nell’Uganda contemporanea. Il caso del Rwenzori
Da più di un secolo la regione transfrontaliera che si estende intorno all’imponente massiccio del Rwenzori è teatro di scontri e conflitti ricorrenti, che hanno messo a dura prova la vita delle popolazioni dell’area. I confini generati nel periodo coloniale – in particolare la frontiera che separa l’Uganda dall’attuale Repubblica Democratica del Congo – hanno creato dinamiche identitarie complesse, che si sono innestate su fenomeni precedenti caratterizzati da migrazioni, conquiste e sottomissioni. In effetti, la storia dei numerosi gruppi che abitano le alte pendici della montagna e le aree limitrofe si delinea con chiarezza se viene studiata a scala regionale nella lunga durata. L’emergere intorno al XIV secolo dei regni interlacustri e in particolare del Bunyoro, prototipo di un sistema politico fondato su due classi occupazionali (un esiguo numero di pastori che dominava su masse di contadini), scatenò alcune ondate migratorie successive: i contadini che non intendevano sottomettersi alla gerarchia agro-pastorale fuggirono verso sud, per insediarsi sulle pendici ripide del Rwenzori o proseguire oltre il massiccio penetrando nel profondo della foresta congolese. I gruppi che si insediarono sul versante orientale della montagna assunsero il nome di Bakonzo (letteralmente “il popolo originario”) mentre coloro che proseguirono la loro migrazione fino a colonizzare i lembi orientali della foresta del Congo presero il nome di Banande (termine di probabile origine swahili indicante “coloro che se vanno”). La lingua parlata da questi due gruppi è la stessa, mentre le rispettive organizzazioni politiche si sono nel tempo differenziate: i Bakonzo sono rimasti fino a pochi anni fa una società sostanzialmente acefala, organizzata in segmenti territoriali (crinali) governati da un capo con funzioni rituali; i Banande costituirono invece cinque domini guidati da un sovrano sulla base di un’organizzazione di tipo centralizzato. Accanto a Bakonzo e Banande, altri gruppi caratterizzati da diversi tipi di economia occupano la regione: tra questi, gli orticultori Bamba stanziati nel distretto di Bundibugyo, i pastori Basongora un tempo insediati nell’area dell’attuale Queen Elisabeth National Park, i cacciatori-raccoglitori Basua del territorio del Semliki, da cui furono estromessi con l’istituzione del Parco. L’introduzione dei confini coloniali modificò profondamente uno scenario che un tempo era caratterizzato da grande fluidità e mobilità . Ai primi del Novecento, attraverso una serie di trattati venne definita la linea di confine che separò i territori posti sotto l’allora protettorato inglese dell’Uganda da quelli del Congo belga, divenuto colonia nel 1908 dopo gli anni drammatici dello Stato Indipendente leopoldino. Questa separazione amministrativa contribuì ad una ridefinizione delle popolazioni dell’area e dei loro rapporti reciproci. In particolare i Bakonzo, sottoposti al governo indiretto istituito dagli inglesi, vennero sottomessi al controllo del regno del Toro amministrato secondo il modello della gerarchia agro-pastorale. Così i contadini di montagna si ritrovarono ancora una volta vittime delle vessazioni dei pastori, maturando nel corso degli anni un desiderio di indipendenza che ancora oggi alimenta il conflitto. I Banande si troveranno a loro volta separati dai cugini Bakonzo sotto l’amministrazione belga, dove svilupperanno i loro domini. L’identità contadina che aveva accomunato i due gruppi nell’etichetta Bayira (letteralmente i “contadini”) opponendoli ai pastori Bahima dei regni orientali, perse rilevanza politica ma si trasformò in una sorta di mito delle origini gravido di rivendicazioni etniche. Con il sopraggiungere dell’Indipendenza i sentimenti di odio e rivalsa dei Bakonzo, che il regime coloniale aveva represso con la forza, esplosero in un’aperta ribellione contro il nuovo governo nazionale. Il movimento Rwenzururu (termine con cui il massiccio viene indicato nelle lingue locali) passò alla storia in quanto protagonista di una delle più violente ribellioni dell’Africa indipendente. Guidati da un maestro elementare, Isaia Mukirane, i Bakonzo diedero vita ad un’organizzazione militare che aveva come obiettivo la secessione dall’Uganda e la riunificazione con i cugini Banande all’interno del mitico regno dei Bayira, che aveva continuato ad occupare l’immaginario locale. In questa fase il movimento si configurava programmaticamente come una forza multietnica che comprendeva anche i Bamba. Alla morte di Mukirane, avvenuta nel 1966, un cambiamento di rotta iniziò a farsi strada: nel 1972 il figlio di Mukirane, Charles Wesley Mumbere, che allora viveva negli Stati Uniti, venne dichiarato omusinga (sovrano) e iremangoma (custode del tamburo regale) del fantomatico regno Rwenzururu, che verrà riconosciuto dalle autorità ugandesi soltanto nel 2008. La società acefala dei Bakonzo avviò in questo modo un faticoso processo di centralizzazione che continuò ad intrecciarsi con le tensioni politiche interne alla nazione ugandese e con la complessa situazione del vicino Congo. Il riconoscimento del regno avvenne sulla base della costituzione ugandese del 1995, che aveva ammesso l’esercizio di alcune prerogative culturali delle autorità tradizionali. Ai regni che sorsero grazie a questa nuova costituzione – in primis il potente regno del Buganda – fu fatto divieto di dotarsi di strutture di tipo finanziario o militare. I fatti che seguono il riconoscimento del regno sono storia recente. Sorto nel 2008, l’Obusinga Bwa Rwenzururu, come è denominato il regno in lingua konzo, assume posizioni fortemente secessioniste in aperto conflitto con il governo del Presidente Yoweri Museveni. La tensione sfocia spesso in scontri e incidenti. In particolare, alcuni episodi di violenza estrema hanno segnato gli ultimi tre anni. Il primo è avvenuto nel luglio del 2014, quando alcuni gruppi di Bakonzo conducono un attacco coordinato a caserme e posti di polizia in diversi distretti della regione, duramente represso dall’esercito ugandese (le fonti giornalistiche parlano di un centinaio di morti). La dinamica e le cause degli scontri restano oscure, ma le rivendicazioni dei Bamba i quali a loro volta avevano ottenuto il riconoscimento del loro regno nel maggio del 2014 sembrano aver ulteriormente destabilizzato l’equilibrio nella regione. Due anni dopo, nel febbraio 2016, si svolgono le elezioni con le quali il Presidente Museveni estenderà per altri cinque anni il suo governo ormai trentennale avviato nel 1986. Nel distretto di Kasese, tuttavia, l’opposizione – che sostiene le istanze del regno del Rwenzururu – ha la meglio. In marzo gli scontri tra Bamba e Bakonzo fanno una cinquantina di morti. La tensione con il governo continua a salire in un crescendo che porterà nel novembre scorso al massacro da parte dell’esercito nazionale di almeno 116 persone (per lo più appartenenti alla guardia del corpo personale del sovrano) all’interno del palazzo reale di Kasese. Le cause di questo crescendo di violenza vanno ricercate nelle politiche portate avanti dal governo Museveni – analogamente a quanto sta accadendo in altre nazioni africane – al fine creare consenso. Il riconoscimento dei regni si traduce infatti in forme di patronato politico che tendono a scardinare gli equilibri delle forze presenti nella società contribuendo a una sua frammentazione. Tale processo ha provocato il proliferare dei regni, anche in contesti che non avevano mai conosciuto forme politiche centralizzate. La moltiplicazione dei soggetti politici ha favorito inoltre una progressiva etnicizzazione del sistema, che fatalmente si traduce nell’aumento di tensioni e conflitti. L’esempio offerto dalla regione del Rwenzori consente di comprendere la stretta correlazione tra l’incremento di rivendicazioni identitarie locali e la conflittualità politica e sociale. La dimensione culturale all’interno della quale le istanze dei regni dovrebbero essere confinate, finisce col sostenere a sua volta tale frammentazione, mentre le politiche di integrazione nazionale sembrano scomparire. Uno scenario comune a molti contesti dell’Africa sub-sahariana, dove l’eredità coloniale si è oggi trasformata nello sviluppo inedito di contrapposizioni etniche violente, sconosciute in epoca pre-coloniale.  Per saperne di più: Doornbos, M. (1970) “Kumanyama and Rwenzururu: Two response to Ethnic inequality” in: Rotberg R.I., Mazrui A.A., Protest and Power in Black Africa, Oxford, Oxford University Press, New York. Pennacini, C. and Wittemberg H., (eds.) (2008) Rwenzori. Histories and cultures of an African Mountains, Fountain Publisher, Kampala. Peterson, D. (2016) “A history of the Heritage economy in Yoweri Museveni’s Uganda”, Journal of Eastern African Studies, 10(4), pp. 789-806. Published in: Uganda e Mali: conflitto e sicurezza in Afric
Introduzione
Fenomeno di portata universale riscontrabile, con le dovute differenze,in moltissime culture umane, la possessione spiritica ha costituito un argomento classico dell’antropologia. L’idea di essere posseduti da un essere spirituale, un antenato, un dio, un animale – l’idea di avere un “dio dentro” al sé, secondo l’etimologia originale del termine “entusiasmo” – in grado di conferire alla persona del posseduto speciali poteri magici o taumaturgici è rinvenibile infatti in molte grandi civiltà del passato oltre che nelle culture tradizionalmente studiate dagli antropologi
Farsi madri. L'accompagnamento alla nascita in una prospettiva interculturale
Considering human reproduction as a bio-social phenomenon, in which the universal physiology of birth gives way to particular cultural modes, we examined some social procedures that drive pregnant women into motherhood. Far from being a petty moment of lingering, expectancy features specific relationships, ideas and activities that allow every woman to become a mother, according to precise standards collectively ascertained. The social construction of motherhood is a process taking place both in private and public sites and may be especially detected in birth care settings: family planning centers, maternity hospitals, independent associations and self-help groups.The empirical research was carried out during 2008 in the district of Bergamo: a north-eastern Italian area marked with rising immigration, a deep-seated Catholic legacy and a recent ethnonationalist political surge. Comparing the data constructed through i. participant observation in three different prenatal courses, ii. twenty semi-structured interviews with mothers and health staff and iii. textual analysis of childbirth education records, I portrayed a dynamic picture of the local reproductive culture. Assets and setbacks of my ethnographic research are mainly due to my being a second-time pregnant woman while conducting the survey.Analyzing women’s ritual transition into motherhood, not only ideas on mothering turned out to be plural and dissonant, although always entailing a perception of parental duty, but the personal experiences of pregnant women have shown great variance.Growing attendance of immigrant women in birth centers gave us the chance to face other ways of managing childbirth, to access different midwifery skills, sometimes allowing both native women and health professionals to acknowledge the partiality of their own perspectives. Through the interactions observed and the narratives collected, we tried to explain how migrants place their social difference within health-care systems, between episodes of marginalization and attempts to foster community solidarity.Not only migrants’ reproductive practices are cultural hybrids, where ethno-obstetrics compete with western clinical care, but the overall birth knowledge in our chosen area proved fluid and diverse. Even though couples resort to medicine as an authoritative tool to prevent clinical risk, the meaning of biotechnology usage is not clear-cut, but closely dependent on social actors and situations. Literally pregnant with meaning, women seem to embody culture. In particular, the mother-fetus linkage, largely shaped with ultrasound imagery, indicates how personal identities proceed through social structuring. Since each pregnancy is at once lived and represented in intersubjective spaces, uneven reproductive experiences hinge on the social and symbolic capital held by women. Yet, lay and even formal birth courses may accommodate intercultural dialogue and empower mothers in dealing with set maternal scripts.In the wake of the anthropology of reproduction and according to some feminist debates, pregnant women bodies are seen not only as an object of social control, but also as a source of knowledge and action. The experience of motherhood finally reveals itself not so much a receptive institution of care and education, but instead an active social performance demandingly negotiated.Keywords: motherhood, embodiment, childbirth education, ethno-obstetrics, medicalizatio
- …