Il passato è un terreno morto

Abstract

Most cultures use the past for stability and risk seeing not the other there but itself. One has to be able to see and sense a situation rather than be drawn into the reality depicted by formal historiography and national narratives. Departing from acute memories of conflict, enlisted for barricading identity, we can develop the capacity to contain an event and simultaneously progress towards a new beginning. I aim to question mapped boundaries through a biographical lens; to this end I observe onsite/insightfully the remains of village and its neighbour in northern Israel. The art of mapping debris can introduce new practices into the architecture of conflict.La gran parte delle culture usa il passato per garantirsi una stabilità nel presente, rischiando tuttavia di non vedere l’altro, ma solo sé stesso. Occorre essere capaci di vedere e percepire una situazione piuttosto che esser calati entro una realtà disegnata dalla storiografia ufficiale e dalla narrativa nazionale. Partendo da acute memorie di conflitti, ingaggiati per difendere l’identità, si può sviluppare la capacità di contenere ogni eventualità e contemporaneamente procedere verso un nuovo inizio. Ambisco a interrogare i confini tracciati attraverso una lente biografica; in questo testo a questo scopo osservo sul posto/intimamente i resti del villaggio di Kufr Bir’im e del suo vicino Kibbutz Baram nel nord di Israele. L’arte di mappare i rottami può introdurre nuove strategie nell’architettura del conflitto

    Similar works