Il “romanzo genealogico”, ovvero la memoria viva dei morti

Abstract

Il cosiddetto ‘romanzo genealogico’, affermatosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta in molti scrittori di origine ebrea e in diversi paesi, si sviluppa sulla base di una sensibilità ben specifica legata alla rinnovata discriminazione. In un contesto di offesa alla memoria, ripercorrere la genealogia (sulla scia letteraria di Georges Perec) significa voler situare se stesso nel filo dell’eredità ebraica e rifondare la stirpe, ritrovando l’ordine e le classifiche che legano le generazioni nella Storia, malgrado la perdita e lo sterminio. Tale motivazione crea una forte propensione espressiva per un io narrante che articola spinta autobiografica e libertà d’invenzione, dentro una forma ‘romanzo’ atta a suscitare una varietà infinita di ‘effetti di realtà’: servendo da motivi dinamici dell’azione a partire da poche o frammentarie tracce, essi permettono che la finzione riempia i vuoti e i silenzi delle realtà che sono state perdute o non sono mai esistite. A titolo di esempio, sono analizzati Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten (del 2000) e L’orologio di Monaco pubblicato da Giorgio Pressburger nel 2003. Se i due romanzieri – dai destini individuali assai differenti – danno ugualmente alla scrittura la funzione simbolica di ‘sepoltura’ per gli antenati spariti nella diaspora o assassinati durante la Shoah, essi divergono del tutto nel definire la loro condizione da ultimo della stirpe e la vita dei ‘figli’: al pacato ritrovamento di se stesso nella memoria familiare da parte di Giorgio van Straten si contrappone l’ansia di disparition di Giorgio Pressburger

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Last time updated on 14/06/2016

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